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 2025  ottobre 29 Mercoledì calendario

Intervista a Giovanni Minoli

Cosa guarda in tv?
«Moltissimo sport. E poi un po’ di tutto, per restare aggiornato».
E le serie?
«Guardo la fiction di Matilde, è la più bella: Blanca è stupenda, la disabilità che diventa protagonista di una vittoria».
Matilde è (da 51 anni) sua moglie, la presidente di Lux Vide figlia di Ettore Bernabei, l’uomo che inventò la Rai. E lui è Giovanni Minoli, 80 anni, decano del giornalismo televisivo, dirigente, innovatore, imprenditore, o, come concede alla fine, «televisionista». Non è facile prendergli le misure nel suo appartamento romano vicino a piazza Navona, progettato come una via di mezzo tra un garage e uno studio televisivo. Vuole prima fissare le regole, ma aggiunge subito le eccezioni. Eppure lui ne aveva una sola, senza deroghe, negli almeno 300 faccia a faccia che hanno fatto la storia della televisione, quando intervistava Henry Kissinger e Gheddafi, Gianni Agnelli e Giorgio Armani, Netanyahu e Raffaella Carrà: nessun taglio, nessun montaggio, tutto in diretta, buona la prima.
Era nervoso prima di farle?
«Nervoso no, ma ho fatto moltissimo sport agonistico da ragazzo, soprattutto sci e calcio: sono abituato a sentire l’adrenalina della competizione, la sento pure con lei adesso; vorrei dare le risposte più efficaci, precise e concrete».
È entrato in Rai nel 1972. Mixer debuttò nel 1980. La disturbava di più che dicessero che era raccomandato dai socialisti o da suo suocero?
«Mi offendeva che non dicessero che ero figlio di Eugenio Minoli, padre dell’arbitrato internazionale, e pronipote di Ottavio Minoli, un Armani ante litteram, perché vestì la regina, e un po’ Feltrinelli, perché finanziò Mazzini».

In tv chi l’ha aiutata di più?
«Due donne: Elvira Sellerio, che mi impose come direttore di rete a RaiDue; e Letizia Moratti, che approvò la fiction Un posto al sole».
È per la Sellerio che ha costretto sua figlia Giulia a chiamare una nipote Elvira?
«Costretto... L’ho convinta».
Sua figlia è nata con seri problemi di udito.
«Il professore che aveva fatto la diagnosi ci disse che non avrebbe mai parlato e che sarebbe stata un’asociale. Invece Giulia non dico che parli con le pietre, ma quasi. Ma sa che per il suo impegno nel sociale e nello spettacolo è stata appena premiata da Diane von Furstenberg a Venezia? Prima di lei quel riconoscimento era andato a Hillary Clinton».
Da padre ha cercato di proteggerla?
«Quando era piccola frequentava le elementari qui di fronte. Un giorno torna a casa e mi dice che un compagno l’aveva chiamata “mongo-sorda”. Il giorno dopo sono andato a scuola con lei, ho preso per le braccia quel bambino e l’ho fatto penzolare fuori dalla finestra. “Chiedi scusa”, gli dissi».
Si ricorda quando è nata?
«Era il 12 luglio 1982. Le dice niente?».
Il giorno dopo la vittoria dei Mondiali di calcio.
«Io avevo pronto uno speciale di Blitz con la squadra appena rientrata dalla Spagna. Solo che la mattina accompagno Matilde dal ginecologo e lui le dice di prepararsi perché manca poco. Così gli parlo: “Se vuole un pallone con la firma di tutti i campioni del mondo, faccia partorire mia moglie dopo le 23.15”».

Ci riuscì?
«Matilde stava per entrare in sala operatoria, dalla tv della sua stanza si sentiva la sigla finale del programma. Io arrivai di corsa e le chiesi: “Mi hai guardato?”».

Torniamo alla sua carriera in Rai. Tolte due donne, fu aiutato dal calcio.
«Giocavo nella squadra con le maestranze, facevo tre gol a partita. In studio erano sempre pronti ad aiutarmi».
Una bella rivalsa per uno al quale la madre impedì di andare a giocare con il Milan.
«Era il Milan di Nereo Rocco. Avevo vinto il Carlin, un trofeo prestigioso. Venne il vecchio Rizzoli a parlare con i miei genitori, ma non ci fu verso. Io già mi immaginavo calciatore-scrittore, uno diverso dagli altri».
Errori di valutazione?
«Ho formato giornalisti come Milena Gabanelli, Sveva Sagramola, Annalisa Bruchi, Massimo Giletti... Non me la sono cavata male».
Eppure nel 1991 disse a «Epoca» che Berlusconi era un grande imprenditore che non aveva capito il Paese, si era limitato a vendergli degli spot. Peccò di arroganza?
«Di sicuro. Ma il mio giudizio cambiò. Considero Berlusconi e Bernabei i due Gramsci della televisione. A Berlusconi non perdonavo solo il conflitto di interesse».
Tra i grandi che scoprì ci sono Minà e Funari.
«Minà aveva solo bisogno di qualcuno che gli desse spazio, aveva contatti con chiunque. Funari, invece, l’ho proprio comprato a Telemontecarlo e mi costò 25 film».
In che senso?
«RaiDue aveva appena subito il colpo durissimo degli arresti di Enzo Tortora, bisognava trovare in fretta qualcuno che ne prendesse il posto. Funari conduceva i Torti in faccia. Andai a parlare con il suo direttore e concordammo il passaggio cedendo 25 film in prima serata.
Funari da noi condusse Aboccaperta, una vera rivoluzione».
Di quale delle sue rivoluzioni è più orgoglioso?
«Ce ne sono tante. Rivendico la decisione di spostare l’orario del Tg2 dalle 19.45 alle 20.30. Su RaiTre portai medicina, economia e storia in prima serata».
A proposito di storia. Come procede la vendita dei suoi diritti de «La storia siamo noi»? Valgono davvero 30 milioni?
«Anche di più. Aumentano di anno in anno, ma sarà il giudice a stabilirlo».

Intende fare causa alla Rai?
«Chissà. Quei diritti potrebbero essere l’eredità di Giulia. Comunque la cancellazione dai palinsesti della Storia siamo noi è stata un colpo, la prova della scarsa lungimiranza dell’attuale dirigenza».
Suo padre morì poco dopo il suo ingresso in Rai. Cosa avrebbe voluto che vedesse?
«Tutto. Riuscì a vedere solo i programmi per bambini e due puntate di Boomerang. Era il mio maestro, amico, mentore. Nonostante fossimo 8 figli, con me riuscì a instaurare un rapporto speciale».
Nella borsa da lavoro che era dentro l’auto con cui ebbe l’incidente in cui morì, fu trovata una cassetta con un messaggio per ciascuno di voi figli. Ce l’ha ancora?
«Certo. Racconta anche la sua conversione. Mi capita di risentirla, l’ho conservata per le mie nipoti. Matilde è la più grande, aspetto che manifesti un po’ di curiosità».
In famiglia avevate dovuto affrontare il lutto di suo fratello Paolo, morto a 6 anni per un tumore al cervello.
«La sera ci riunivamo intorno al suo letto per pregare. I miei genitori lo avevano portato anche in Svezia da un luminare, inutilmente».
È vero che sua madre, nobile torinese, vi chiamava con le scampanellate?
«Sì, una per numero di figlio. Io ero il terzo, tre scampanellate. Non sono mai andato d’accordo con lei, mai. Non era capace, con me, di far passare le sue idee, i suoi ordini. Era autoritaria e troppo arrogante. L’opposto di mio padre, che mi faceva fare quello che volevo».
E lei a chi pensa di somigliare di più?
«A mia madre».

Su RaiPlay possiamo vedere le vecchie puntate di Mixer grazie a un’idea di Sangiuliano, ai tempi direttore del Tg2. Ora si candida alle regionali in Campania, ha visto?
«Credo abbia un conto in sospeso con la politica. Ma non sempre tornare sul luogo del delitto porta fortuna».
Al posto suo, da esperto di tv, avrebbe fatto l’intervista al Tg1 per scusarsi con la Meloni dell’affaire Boccia?
«No, io non l’avrei fatta».
Dei personaggi che ha intervistato chi l’ha più colpita?
«Tanti. Kissinger fece con me l’unico faccia a faccia in Italia. García Márquez lo incontrai a Cuba, Marcos a Honolulu: Imelda mi confessò una cosa su Gheddafi che non posso riferire».
Ma sono morti tutti, ormai!
«Non si può. Gheddafi è un altro carismatico al massimo. Ricordo che mi avvertì: la Turchia sarebbe stata il Cavallo di Troia del fondamentalismo islamico in Europa».
Come le venivano le idee per i programmi?
«Credo di avere inventato tutti i programmi che ho fatto camminando a Filicudi e a Punta Ala. Io cammino 10-12 chilometri al giorno, sempre. Camminare sollecita la mia fantasia e mi aiuta a fare le connessioni più impensabili. Il fatto, poi, che non provengo da una famiglia di cinema, di giornalismo o di teatro, ha lasciato la mia mente libera rispetto alla creatività».
L’idea che affermò con più fatica?
«Le inquadrature dei faccia a faccia di Mixer. Ricordo le prove al Teatro delle Vittorie, con i cameraman che urlavano che non si poteva fare».
Oggi si parla tanto di fake news. Lei in qualche modo anticipò il tema.
«Mandai in onda il falso documentario che denunciava brogli nel referendum del 2 giugno 1946. Ricordo i commenti: Minoli in galera! Sembrava avessi fatto peccato mortale. Il mio intento era dire: attenti che vi fregano, la vostra soglia di attenzione deve essere sempre alta!».
Quando le tolsero Mixer andò in Africa.
«E che dovevo fare?».
Barbara d’Urso è andata a studiare inglese a Londra.
«La d’Urso ha subito gli effetti del riequilibrio del potere. Il ruolo di Pier Silvio è difficile, deve sostituire un genio. Io invece sono andato in Africa accogliendo l’invito dei padri comboniani. Sono partito dal Kenya, poi sono andato in Tanzania, in Uganda. E lì ho scoperto che Giovanni mi è più simpatico di Minoli».
Ricoprendo quale incarico, si è divertito di più?
«La mia maledizione è che a me diverte tutto: la radio, la televisione, la direzione, la produzione. Però la considero anche la mia fortuna».
Oggi chi intervisterebbe?
«Mah, i grandi non si fanno più intervistare, comunicano dai social».
Non c’è proprio nessuno?
«Sì, uno c’è: il Papa. Spero di riuscirci».
E quale domanda gli farebbe per prima?
«Lei crede in Dio?».
E lei, Minoli, ci crede?
«Certo. Per il dopo, è già tutto organizzato dall’alto».