La Lettura, 26 ottobre 2025
Il tennis non insegna a vincere o perdere. Ma ad accettare chi sei
Estate, fine anni Ottanta. Dopo allenamenti duri e regole ferree, Felice, 13 anni e sulle spalle le aspettative paterne, arriva ad affrontare i tornei nazionali di tennis. Per prepararlo al meglio, il padre lo affida al sedicente ex campione Raul Gatti, che vanta un ottavo di finale al Foro Italico. Di partita in partita, i due iniziano un viaggio che porterà Felice a scoprire il sapore della libertà. «Il maestro» di Andrea Di Stefano, presentato alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia, è scritto da Andrea Di Stefano e Ludovica Rampoldi, con Pierfrancesco Favino nel ruolo di Raul Gatti e Tiziano Menichelli in quello del piccolo Felice. Il film è prodotto da Indiana Production, Indigo Film e Vision Distribution; arriverà nelle sale dal 13 novembre. Il regista parla qui del film e del tennis, quindi della vita, con Sandro Veronesi.
SANDRO VERONESI – Io comincerei con la cosa che personalmente mi ha toccato di più, nel film, e cioè tutta la parte che si svolge nel luogo dove Favino, il maestro, ha imparato a giocare, e dove ritrova la sua vecchia maestra. Quel posto lì me lo sogno la notte, mi ci vorrei trasferire per quanto mi è piaciuta tutta la parte di film che si svolge lì dentro. Da dove viene? Che poi quello non è un circolo, no? È un campeggio.
ANDREA DI STEFANO – Sì esatto, è un campeggio.
SANDRO VERONESI – Ma è un luogo inventato o un luogo reale?
ANDREA DI STEFANO – No quello è un luogo della mente. Sono stato in un posto simile a Saint-Gréé, al confine con la Francia, quando avevo quattordici anni, ed è lì che ho visto le due generazioni dei maestri che si incontravano, quello di quarant’anni con il suo maestro di 65, che per questo diceva a tutti «io sono maestro vostro». Ecco, questa cosa delle tre generazioni mi è rimasta in mente.
SANDRO VERONESI – Adesso però partiamo dall’inizio: tu sei stato tennista da che età?
ANDREA DI STEFANO – Da subito. A sei anni mi hanno portato al 3 Fontane a Roma, ho fatto l’esame per entrare alla scuola tennis e ho cominciato a giocare lì col maestro Durastante. E ho continuato lì fino ai tredici, quattordici anni.
SANDRO VERONESI – Di che classe sei?
ANDREA DI STEFANO – Del 1972.
SANDRO VERONESI – Quindi hai l’età di Sampras, diciamo. Di Krajcek. Di Ivanisevic.
ANDREA DI STEFANO – Sì. Di quei fenomeni lì.
SANDRO VERONESI – E che giocatore eri?
ANDREA DI STEFANO – Discontinuo. Fossi sempre stato quello di grandi match eroici, in cui la testa non entrava in gioco e lasciavo il braccio libero, sarei stato forte. Facevo delle grandissime partite però poi per vincere un torneo devi metterne in fila 6 o 7 e io non sono mai riuscito a farlo. Ho vinto qualche torneo, però le grandi performance di testa per primeggiare in quelli importanti non le ho mai avute.
SANDRO VERONESI – E sei andato avanti fino che età? A che livello sei arrivato?
ANDREA DI STEFANO – Sono arrivato C2 a quindici anni e sarei potuto salire di più solo che ho avuto dei problemi alla caviglia, laceramento dei legamenti del malleolo, che mi hanno frenato. E poi mi sono innamorato di questa ragazza del liceo, Michela, e anche questo mi ha frenato – solo che non eravamo compatibili. A un certo punto è pure saltata fuori la possibilità di andare in America da Nick Bollettieri, che venne a Roma per fare dei corsi e dava una borsa di studio ai tennisti che aveva in quei corsi e ne propose una a me, e lì è stato il momento in cui ho detto a mio padre che non volevo più giocare perché andare a fare questa prova che era di 60 giorni, due mesi, in Florida a Fort Lauderdale era inconcepibile.
SANDRO VERONESI – Tu sai che Matteo Garrone invece l’ha fatto?
ANDREA DI STEFANO – Sì, lo so.
SANDRO VERONESI – E sai qual è stato il momento in cui ha capito che non sarebbe diventato professionista?
ANDREA DI STEFANO – No...
SANDRO VERONESI – Mentre era lì in Florida, da Bollettieri venivano ogni tanto Agassi e gli altri suoi allievi che facevano già il circuito. Venivano tra un torneo e l’altro, ad allenarsi. Un giorno Garrone gioca per allenare uno di loro, un messicano numero 100 al mondo, e lo batte. Gioca formidabilmente bene e lo batte, lì, batte il numero 100 al mondo, davanti ad Agassi, davanti a tutti – e la loro reazione dinanzi alla più gloriosa vittoria della sua vita è: prendere ferocemente per il culo il messicano. Lì Garrone dice di aver capito che il tennis non era la sua via.
ANDREA DI STEFANO – A me è successa una cosa simile, una partita che per me è stata decisiva per smettere. Quando avevo quindici anni giocai contro questo tennista francese che poi anche lui è finito tra i primi 100 al mondo. Io ero super allenato, facevo quattro chilometri di corsa veloce tutte le mattine, non mi entravano le gambe nei jeans, ero proprio muscolosissimo, al massimo della forma. E giocai contro questo francese, in un torneo vicino Milano, e persi 6-2-6-1 – ma la cosa che ricordo con vergogna è che alla fine della partita io ero fradicio di sudore mentre lui non era sudato. Lì ho capito che non c’era futuro.
SANDRO VERONESI – Senti, hai messo una scritta all’inizio che dice che tutti i personaggi del film sono frutto della fantasia degli autori e poi però alla fine hai aggiunto: «Capito, papà?». Viene da pensare che si tratti di una storia autobiografica.
ANDREA DI STEFANO – Sì, gran parte delle situazioni raccontate nel film le ho vissute veramente, a parte quella del campeggio. Mio papà era molto appassionato di tennis ma lo aveva studiato sui libri, non era forte sul campo. Mi allenava quando poteva, la sera, nello stesso circolo dove poi abbiamo girato il film, sul campo numero 3 dell’Eur Tevere, e dove ho passato tantissime serate con l’umidità del fiume e tutto il resto.
SANDRO VERONESI – Dunque questo è un film che avevi in canna da sempre. Cioè mentre facevi L’ultima notte di Amore, o magari anche Escobar, mentre giravi quelle scene d’azione, questo ragazzino con lo sguardo spaesato alle prese con la macchina sparapalle ti stava già chiamando?
ANDREA DI STEFANO – Sì. Ho sempre saputo che l’avrei fatto, un giorno. Questa era una storia che avevo scritto con Ludovica Rampoldi nel 2006. All’inizio sembrava che dovessimo farla in Francia, e poi non si è più fatta. Poi si è parlato di farla in America, ma anche lì non se ne è fatto nulla. Poi, durante la promozione de L’ultima notte di Amore, io e Pierfrancesco ci siamo ritrovati una sera a parlare con grande malinconia: facevamo un po’ il punto delle nostre vite, dove eravamo arrivati eccetera. E mi ricordo esattamente il momento in cui lui ha detto una cosa e io l’ho guardato e c’era una meravigliosa tristezza nei suoi occhi. Non gliel’avevo ancora vista, quella cosa lì, e mi sono detto: «Bisogna farlo adesso, è il momento giusto».
SANDRO VERONESI – Favino che fa il maestro è formidabile, ma lo è anche Felice, il ragazzino che fa te. Ora ti chiedo una cosa a beneficio dei giurati del David di Donatello: chi è il protagonista e chi è il non protagonista?
ANDREA DI STEFANO – Secondo me sono tutti e due i protagonisti.
SANDRO VERONESI – Però è interessante il fatto che tu abbia scritto una storia autobiografica ma la chiami Il maestro e sposti il fuoco su un altro. Ti sei ispirato a un vero maestro che hai avuto?
ANDREA DI STEFANO – A due, in realtà. Umberto Tarantini e Andrea Capogrosso. Ma la figura del maestro è sempre stata una cosa che mi ha affascinato, perché io sono sempre stato molto fortunato con i maestri. Anche quando sono partito per New York, giovanissimo, per fare teatro. Sono partito perché avevo trovato a Roma la mia maestra di recitazione, Susan Batson, della scuola di Uta Hagen, che era venuta a fare un seminario. E poi dopo di lei ne ho incontrati molti altri, e ogni volta era una crescita. Io volevo raccontare quello. Perché i maestri, nella mia esperienza, sono quelle figure che ti dicono la cosa giusta al momento giusto, che hanno quella abilità di scavare dentro di te e dirti quello che sei bravo a fare e quello che non sei bravo a fare.
SANDRO VERONESI – E poi, insomma, questo rapporto maestro-allievo, magari col padre sullo sfondo, è un po’ un classico, nel cinema, no? Penso a Karate Kid, o a In cerca di Bobby Fischer, meraviglioso film sugli scacchi, o allo stesso Million Dollar Baby. Molti film bellissimi raccontano la maturazione dell’adolescente grazie a un maestro che, pur essendo tutt’altro che perfetto, anzi magari proprio in rovina, come Favino, gli permette di uscire dal nido. In fondo, quell’occhiolino che il ragazzino fa alla fine, mentre scende a rete, dopo che il padre lo ha sempre diffidato dal farlo, è proprio l’uscita dal nido. Ma tu eri uno che andava a rete, o uno che per precetto paterno non doveva andarci?
ANDREA DI STEFANO – No, no, mio padre era più aggressivo del padre di Felice nel film. Direi che era l’opposto. Per ragione drammaturgiche ho invertito la narrazione.
SANDRO VERONESI – Ma a te il tennis piaceva? O vivevi la proiezione di tuo padre, come Agassi?
ANDREA DI STEFANO – Senti, la cosa che ho sperimentato col tennis è che ero profondamente solo. A quindici, sedici anni, ero solo. Ricordo il primo bacio che ho visto in vita mia. Ero sulla Tuscolana, avevo appena vinto la semifinale, ero in macchina con mio padre e il mio allenatore. Tornavamo a casa, ma eravamo fermi in mezzo al traffico. Lì, sotto l’insegna di un negozio chiuso, un fioraio, ho visto due ragazzi baciarsi. Teneramente. A lungo. Erano a cinque o sei metri da noi, noi non ci muovevamo, e ho visto per un minuto, forse due minuti, quel bacio. Io ancora non avevo baciato nessuno, e il primo pensiero è stato: «Ah, è così che si bacia». Il secondo è stato: «Quando capiterà a me?». Ero lì, imprigionato in macchina, col mio allenatore e mio padre che erano tutti contenti perché avevo vinto la semifinale, e io guardavo quel bacio. Ero solo.
SANDRO VERONESI – Un’altra cosa bella del film è che i protagonisti perdono.
ANDREA DI STEFANO – Sì, perdono. Di solito nei film sullo sport c’è sempre il terzo atto in cui dopo tanti sacrifici gli atleti riescono, vincono, trionfano addirittura. Io invece volevo fare un film che raccontasse gli sconfitti. E il tennis è perfetto perché, come ho detto, ti rende solo perfino quando vinci. Negli sport di squadra la sconfitta non è mai così dura, perché puoi sempre dare la colpa a un altro. Ma nel tennis la colpa è sempre tua.
SANDRO VERONESI – Io ho molto apprezzato il fatto che questo film non dia speranze di gloria, di quella gloria là, ma porti Felice ad accettare il suo limite. Perché è quella la sola cosa duratura che ti può dare lo sport. La baldanza fisica con la quale vinci le partite dopo un po’ si spegne. E cosa ti resta? Ti resta quello che hai imparato. E non hai imparato tanto a vincere o a perdere, quanto ad accettare l’ineludibile, cioè quello che tu sei. È una cosa che nella vita, finché non l’accetti, fa di te uno sbandato, una persona in pericolo.
ANDREA DI STEFANO – Sì. È questa la lunga lezione che Favino impartisce a Felice e che nessun altro poteva impartirgli. E gliela impartisce con il corpo, quando gli insegna a ballare.
SANDRO VERONESI – Già. E siamo tornati in quel luogo incantevole dal quale siamo partiti, quel campeggio, e quel campo da tennis andato in rovina e rimesso a posto.
ANDREA DI STEFANO – Quella scena per me era molto importante. Noi lo vediamo nel film, Felice è invitato a ballare dalle ragazze, ma lui dice sempre di no, no, no. E poi arriva quest’uomo che lo ha accompagnato in una sequela di sconfitte, e l’indomani ci sarà un’altra partita, e probabilmente verrà persa anche quella, ma c’è della musica, e quest’uomo gli dice «balliamo» – e in quel modo lo libera. Lì sì, quella è la più grande lezione che gli dà il maestro.
SANDRO VERONESI – Ma tu, dai tuoi maestri, l’hai ricevuta una lezione come quella?
ANDREA DI STEFANO – Sì. Alla mia domanda: «Ma domani, se perdo, che faccio?», la risposta del maestro Tarantini fu: «A noi ce vie’ sempre da ride». Sembrerà banale, ma quella cosa mi è rimasta dentro per tutta la vita. Ancora oggi, quando ricevo una brutta notizia, o se ho girato una scena di cui non sono soddisfatto, mi dico: «A noi ce vie’ sempre da ride».
SANDRO VERONESI – Questo «noi» è molto rassicurante, tra l’altro, perché all’improvviso non sei più solo.
ANDREA DI STEFANO – Ed è anche una specie di reclutamento. Da quel momento ho sentito di far parte di un club, dei guitti, di «quelli così», che affrontano la vita con ironia. È stata un’iniziazione, un rito del clan.
SANDRO VERONESI – Tu sei un regista abbastanza anomalo, fai film che potrebbero benissimo essere francesi o americani, per come li fai, per il cast e per tante altre cose. Questo invece è un film profondamente italiano. Ma questa Italia di provincia degli anni Ottanta che viene descritta nel film, col circuito dei tornei, da sud a nord, e poi di nuovo a sud, che sembra meravigliosa, esiste ancora secondo te?
ANDREA DI STEFANO – Secondo me sì. Secondo me abbiamo semplicemente perso la capacità di vederla. Stavo pensando proprio a questo, oggi. Mi sono trovato in un bar in una strada dietro via Veneto e sono rimasto colpito di come ancora ci sono dei traffichini che lavorano con i turisti, vestiti in un certo modo, che provano a vendergli momenti, serate, con i volantini in mano eccetera. Uno parlava con accento siciliano, l’altro gli rispondeva con accento veneto. Quell’Italia esiste ancora, se uno fa tanto di volerla vedere.
SANDRO VERONESI – E questo, come dicevo, fa del Maestro un film profondamente italiano. A differenza degli altri che hai fatto, più internazionali.
ANDREA DI STEFANO – Be’, sì. Ne ho fatti due in America, uno con Benicio Del Toro e un altro, molto americano, che mi sono ritrovato a girare per questioni alimentari e che si chiama The Informer. Il film mio che ho meno sentito mio, ma che ha avuto forse più successo di tutti.
SANDRO VERONESI – Però anche L’ultima notte di Amore non sembra un film italiano. Non sembra fatto da un regista italiano.
ANDREA DI STEFANO – Invece è un film fatto in 35mm, come si faceva una volta, e noi italiani eravamo i maestri nel farlo. Perché è girato in pellicola – che era un’assurdità! Un’autostrada, ottanta macchine che sfrecciavano, da rimettere in posizione ogni volta che ripetevamo una scena... E questo va detto a merito dei miei produttori, che hanno creduto in me. Però è un film molto all’antica, potremmo dire.
SANDRO VERONESI – Sì, all’antica. Come è antico il teatro, dal quale tu provieni – e non come regista, ma come attore. Com’è stato, l’inizio?
ANDREA DI STEFANO – Ma io ho avuto fortuna, la più grande fortuna. Io un giorno sono entrato in un teatro, depresso, mentre tornavo da Economia e Commercio, che poi era la facoltà scelta da mio padre. Sono entrato in un teatro perché ero molto timido, mi emozionavo agli esami e qualcuno mi aveva detto: «Sai, devi provare a fare un corso di recitazione, così forse agli esami riesci a reggere meglio». Mi sono iscritto a dicembre a questo corso, a maggio venne Susan Batson per il suo seminario, alla fine del quale vinsi, con una scena scritta da me (c’era il tennis anche in quella) la borsa per andare a studiare un anno a New York. A luglio sono arrivato a New York, a settembre ho fatto il provino per I bassifondi (Lower Depths) di Maxim Gorky e ho avuto la parte di Vaska Pepel, cioè il super-protagonista, nello spettacolo prodotto e diretto da Arthur Penn al teatro pubblico a La Fayette Street. Capito?
SANDRO VERONESI – E quindi dovevi sapere perfettamente l’inglese, altrimenti quella parte non te la davano. O mi sbaglio?
ANDREA DI STEFANO – Sì, mia madre è irlandese. Ho un piccolo accento ma insomma l’inglese lo sapevo benissimo. Però la cosa che mi è successa è che sono entrato in questo mondo con pochissima cultura cinematografica. Quando sono arrivato a New York io vivevo per il teatro. Lì partecipavo a tutte le sessioni e a tutti i seminari dell’Actor’s Studio (era stato appena ristrutturato da Paul Newman, che aveva anche messo i soldi per produrre il mio spettacolo). E ho fatto seminari di sceneggiatura, seminari con Salem Ludwig su come gli attori affrontavano il teatro. Ho cominciato a vedere film e mi sono appassionato al cinema quando ero, in qualche modo, già quinto dan di struttura della sceneggiatura, costruzione dei personaggi, conflitto interno, i tre atti, i cinque atti elisabettiani... E mi ricordo che quando ero lì un giorno a Houston Street sono andato in un cinema a vedere Ladri di biciclette. E poi l’ho rivisto e rivisto e rivisto. Non ero mai stato un appassionato di cinema, ma lo capivo bene. Vedevo quello che succedeva sullo schermo e dicevo: «Ah, vedi come ha fatto il secondo atto? Ah, la difficoltà, il segreto. Ah, vedi com’è».
SANDRO VERONESI – Lo leggevi, diciamo.
ANDREA DI STEFANO – Ho avuto questo approccio da artigiano.
SANDRO VERONESI – Però le emozioni le provavi lo stesso.
ANDREA DI STEFANO – Le emozioni le straprovavo! Prima provavo l’emozione e poi dicevo: «Guarda come hanno fatto a farmi provare questa emozione».
SANDRO VERONESI – A proposito di emozioni, tu l’hai visto Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson?
ANDREA DI STEFANO – Sì, L’ho visto tre volte.
SANDRO VERONESI – Ecco, vedi. E perché?
ANDREA DI STEFANO – L’ho visto tre volte perché la prima volta mi ha completamente suonato. Sono uscito dal cinema e ho detto: «Ma che cosa ho visto?». «Mi è piaciuto?». «Sì, mi è piaciuto, mi è piaciuto tantissimo, ma»...
SANDRO VERONESI – Quindi quella comprensione immediata di come ti aveva portato a provare le emozioni, la struttura, gli atti, lì non c’è stata.
ANDREA DI STEFANO – La prima volta no. Per cui sono tornato una seconda volta, e lì ho capito la grandiosità del film. E poi il giorno dopo l’ho visto una terza volta, ma già alla seconda avevo capito, perché mi tornavano in testa scene, inquadrature, emozioni.
SANDRO VERONESI – Io l’ho visto ieri e sono ancora suonato. Non riesco a pensare a una sola categoria dove questo film non debba vincere l’Oscar. Sei d’accordo?
ANDREA DI STEFANO – Sì, per tante ragioni. Ma anche perché non si fanno più film così.
SANDRO VERONESI – Senti, mi è venuta un’idea per chiudere: tu prima hai detto una cosa, vorrei che la ripetessi: tua madre è...?
ANDREA DI STEFANO – Irlandese.
SANDRO VERONESI – Bene. Allora si chiude qua. Sulla madre irlandese. Non capirà nessuno, pazienza, ma per me non c’è modo migliore di finire.