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 2025  ottobre 26 Domenica calendario

«Ragazzi di vita» ritrova le parole (auto)censurate: il romanzo rinasce

Poi dicono che gli anniversari sono vuoti automatismi celebrativi. Non è sempre vero. Ci voleva il cinquantenario della morte di Pier Paolo Pasolini per poter leggere finalmente la versione integrale di Ragazzi di vita, il romanzo elaborato tra il 1950 e il 1955, anno della pubblicazione presso Garzanti, avvenuta dopo un faticoso travaglio di autocensura imposto dall’editore, che nonostante questo inizio infelice resterà il suo editore principale.
Eccolo qui, adesso, settant’anni dopo e sempre da Garzanti, il primo romanzo di Pasolini, restaurato, a cura di Maria Careri, nella redazione in cui l’autore pensava in origine di vederlo pubblicato. Un romanzo certo espressivamente più forte di quello che conosciamo, la cui «trama» si svolge nella Roma occupata dai nazisti, particolarmente nel mondo degradato delle borgate e del sottoproletariato, dove «i giovani sanno a stento chi è la Madonna». Lo stesso mondo in cui Pasolini si immerge, anche con interessi documentaristici, appena arrivato da Casarsa a Roma, in fuga da una denuncia giudiziaria per corruzione di minorenni e atti osceni, cacciato dall’insegnamento e dal Pci.
Da quella immersione e partecipazione e identificazione («Mi dibatto in una vita miserabile, in una catena di vergogne») nascono i primi «cartoni» di Ragazzi di vita, che ha per «filo conduttore un po’ astratto» (è lo stesso Pasolini a definirla così) la figura di Riccetto, dalla cui infanzia il racconto prende le mosse per svolgersi in una sfilza di episodi di delinquenza, protagonisti i «ragazzi di vita», spiantati e crudeli, privi di denaro e di affetti, pendolari tra la periferia e il centro città. Mentre Riccetto da adulto troverà una sua collocazione nella società del consumo e dell’omologazione, gli altri continueranno la loro vita fino allo sfinimento e alla morte.
Arrivare alla pubblicazione del 1955 comportò un lavoro forsennato con diversi inciampi. Nel 1951, quando ancora nella testa di Pasolini il romanzo è un «magma narrativo eterogeneo» e porta il titolo Ferrobedò (storpiatura dialettale della fabbrica Ferro-Bedon), un capitolo del futuro libro, presentato come racconto autonomo, viene anticipato su «Paragone», una delle riviste più prestigiose di quel tempo, per di più fondata da Roberto Longhi, maestro di Pasolini. Ed è nuovamente su «Paragone» che, nell’ottobre 1953, si affaccia Pasolini con un nuovo capitolo, intitolato romanescamente Ragazzi de vita: ma è un’uscita che fa seguito all’esclusione di un primo brano, bocciato dalla direttrice Anna Banti, in accordo con Giorgio Bassani. Perché il secondo testo esca, Pasolini deve obbedire alla richiesta di procedere a «una decina di mutilazioni» suggerite dalla prudenza di Banti. Del resto, come ha scritto Silvia De Laude nel fondamentale I due Pasolini edito da Carocci (dove già nel 2018 trattò ampiamente la censura del romanzo), il ministero della Pubblica istruzione poteva fare pressioni sull’editore (Sansoni) e minacciare di disdire gli abbonamenti del mensile troppo «spregiudicato».
Detto ciò, dopo la prima uscita su rivista, l’amico Attilio Bertolucci ha già segnalato a Livio Garzanti il nome di Pasolini facendogli recapitare il racconto di «Paragone», e il giovane editore, rimasto «impressionato» dalla lettura di Ferrobedò, ha già incontrato a Roma il quasi coetaneo scrittore proponendogli subito un accordo: «Parlammo pochissimo, ma in un quarto d’ora – ricordò Garzanti – il contratto era già concluso».
E veniamo al lavoro forsennato, ricostruito da Careri nella Nota al testo. È il 13 aprile quando Pasolini invia a Livio Garzanti il «malloppo», con una lettera in cui si scusa del dattiloscritto «un po’ in disordine con le correzioni» e di alcuni passi ancora provvisori, «una trentina di parole» che si propone di rivedere sulle bozze. Ha finito, «dopo giorni drammatici di lavoro», e può finalmente tornare a respirare, ma qualche dubbio già lo agita se in quella stessa lettera d’accompagnamento scrive: «Quanto alle parolacce, come vede, ho fatto molto uso di puntini: potrei farne (naturalmente a malincuore) ancora di più, se Lei lo credesse opportuno». Il dattiloscritto «in disordine» spedito a Garzanti è andato perduto, ma fortunatamente ne rimane una copia carbone, conservata nella Biblioteca nazionale centrale di Roma: su quella copia Pasolini aveva riportato (forse con qualche variante) le stesse correzioni dell’originale.
Il 15 aprile Garzanti accusa ricevuta manifestando al suo autore qualche «scrupolo» a proposito dell’«uso del linguaggio vivo» e anticipandogli l’esigenza di alcuni interventi: «Credo però che le bestemmie gravi bisognerà assolutamente cambiarle per evitare i pericoli della censura, la quale è molto più accanita sulle questioni di religione, che su quelle della morale comune». Inoltre, l’editore avverte la necessità di «usare più puntini o cambiare uno o due termini troppo violenti che ricorrono spesso». Verso la fine del mese, le bozze, basate sul dattiloscritto «in disordine», sono bell’e pronte e Pasolini va a Milano per incontrare l’editore, che già si è premurato di mandare una prima prova di stampa del romanzo a Gadda, suo collaboratore, per averne un parere.
È probabilmente nell’incontro milanese, bozze alla mano, che l’editore pretende da Pasolini una ripulitura più radicale del romanzo, spaventato dallo scandalo provocato presso i librai, a cui le bozze sono state anticipate. In una lettera del 9 maggio 1955, Pasolini confessa al poeta Vittorio Sereni di aver vissuto in «una specie di incubo» da cui non è ancora del tutto fuori: Livio Garzanti, scrive, «all’ultimo momento è stato preso da scrupoli moralistici, e si è smontato». E prosegue: «Così mi trovo con delle bozze mezze morte tra le mani, da correggere e da castrare. Una vera disperazione, credo di non essermi trovato mai in un più brutto frangente letterario...». Una decina di giorni dopo, ribadirà la sua disperazione: «Sono dimagrito di cinque chili».
Il lavoro di revisione è compiuto «con molta buona volontà» e le bozze «modificate» sono state inviate a Garzanti accompagnate da una lettera che spiega nel dettaglio: «Come vede, ho sostituito con puntini tutte le brutte parole, con rigorosa omologazione. Ho attenuato gli episodi più spinti (Nadia a Ostia ecc.: ma non quello del “froscio”, per consiglio di tutti gli amici, oltre che per intima convinzione), ho sfrondato notevolmente (...), ho tolto il titolo “Il Dio C...”, fondendo l’VIII capitolo al precedente. Insomma ho fatto tutto quello che potevo fare, con molta buona volontà. Spero che Lei me ne dia atto». Si presentano anche questioni di commerciabilità (il confronto è con il successo del Prete bello di Goffredo Parise), ma Pasolini afferma comunque di non condividere il «pessimismo» di Garzanti (che ha anche voluto un glossarietto finale con le parole della malavita e della plebe romana) circa l’eccessivo gergalismo e la resa stilistica, forse sentita come eccessivamente espressionistica. E d’altra parte, lo scrittore vorrebbe evitare un prodotto «alleggerito», «neorealistico» o «denicotinizzato» (l’aggettivo è di Carlo Emilio Gadda). Pur tuttavia, la paura che il romanzo «scandalizzi troppo o addirittura venga processato per oltraggio alla morale» si unisce al timore, manifestato all’amica Silvana Mauri, che la «partecipazione al premio Strega finisca con una figuraccia...». Entrerà nella cinquina dello Strega, ma vincerà Giovanni Comisso. Il processo non si riuscirà a evitarlo.
Ora Careri ha deciso di pubblicare il testo originale contenuto nella copia carbone conservata alla Nazionale di Roma, mettendo in nota le poche varianti della prova di stampa consegnata a Gadda e oggi consultabile presso la Biblioteca teatrale della Siae. Nel confronto tra l’edizione che conosciamo e che uscì nel maggio 1955 e questa, si riscontrano con facilità i passaggi segnalati da Pasolini nella lettera citata all’editore. Intanto le «brutte parole» sciolte con puntini di sospensione. Per cui in questa edizione 2025 troverete i «cazzi», i «vaffanculo», i «ghiaviconi», la «puttana zozza», la «mignotta», la «sorca», la «nerchia», la «bocchinara zozza de tu madre», «er culo» («spacca er culo» diventato poi «spacca er didietro alle tartarughe»), «ma chi te s’è inculato mai, a fungo cinese» eccetera. Persino qualche bestemmia, come (inequivocabili pure con i puntini) «mannaggia la m. addolorata» e il «Dio c…», posto addirittura come titolo del capitolo 8. E per evitare che rimanesse quella titolazione blasfema, Pasolini, come segnalato a Garzanti, fuse l’intero capitolo nel precedente.
Si trovano nella loro integrità alcuni episodi ritoccati o attenuati nell’edizione purgata, come l’approccio tra Nadia e Riccetto, dove prima di fare «quello che dovevano fare» lei si impegna a istruirlo sulla posizione «Tu seduto e io sopra...» con particolari scomparsi nella revisione («se lo stringeva tra le braccia, calcandogli le zinne contro la faccia, e tra le gambe»). Si può apprezzare (ed è davvero un’altra cosa) il finale terribile del capitolo 6 dove, lungo il fiume, il ragazzino rachitico Piattoletta non solo subisce le sevizie, ma viene dato alle fiamme, mentre nella versione ripulita si procurava alcune bruciacchiature. E si potrebbe continuare segnalando altri ritocchi e altre pagine che ci arrivano nuove perché sacrificate alla causa del «buoncostume». Nell’insieme, il tessuto espressivo più esplicito e violento dà al romanzo un’energia diversa, in cui ancora di più il dialetto, così aderente alla materia, rappresenta un intero mondo degradato e insieme poetico che oggi impressiona.
Gli sforzi autocensori di Pasolini, come si diceva, non bastarono a fargli scansare il processo. Nel luglio 1955 il romanzo fu segnalato dalla presidenza del Consiglio alla procura di Milano per il suo carattere osceno anzi «pornografico»: il capo del governo era da poche settimane il democristiano Antonio Segni e l’altro democristiano Fernando Tambroni era il ministro dell’Interno. Ma non fu solo questione di prudérie cattolica, visto che anche a sinistra il libro fece scandalo, tanto che il critico comunista Carlo Salinari lo recensì parlando di «gusto morboso dello sporco, dell’abbietto, dello scomposto e... del torbido». Molto più «laico» si sarebbe mostrato il critico più cattolico che si possa immaginare, Carlo Bo. Il quale si presentò in tribunale come testimone con Giuseppe Ungaretti, sostenendo che il libro aveva «un grande valore religioso» («perché spinge alla pietà verso poveri e diseredati»). Il processo si concluse il 4 aprile 1956 con l’assoluzione, in un clima definito dall’estensore della sentenza di «serena elevatezza».