La Stampa, 27 ottobre 2025
Tutti parlano ovunque
Cè un nuovo rumore di fondo nel paesaggio italiano: la voce altrui.
Non quella della politica, dei talk show o dei social; quella è, da anni, inquinamento acustico dato per scontato. È la voce dei passeggeri, dei pendolari, dei pazienti in sala d’attesa, del cassiere del supermercato, di chiunque abbia un telefono in mano e sempre meno pudore nel distinguere tra pubblico e privato.
È la voce che ti piomba addosso alle sette del mattino, nella carrozza del silenzio, mentre cerchi di leggere, pensare o semplicemente tacere.
E invece no: c’è sempre qualcuno che deve raccontare tutto. A tutti. Ovunque.
Non si tratta solo di maleducazione. È una sindrome diffusa che ci spinge, giocoforza, tra uno sbadiglio e l’altro, all’analisi antropologica: quella che indaga il bisogno di esistere davanti a qualcuno.
Una volta, in treno o al gate, in quei non-luoghi sospesi nel tempo, si parlava sì, ma con lo sconosciuto accanto, nel fragile spazio di una confidenza momentanea.
Ora invece si parla al telefono come su un palco, convinti, o piuttosto compiaciuti, che l’intera carrozza stia prendendo appunti o formandosi un pensiero su di noi. Ogni conversazione è una diretta, ogni gate il set di un piccolo reality senza filtro o montaggio.
«Te l’ho detto che ho mandato la mail a Stefano?» «No guarda, io gliel’ho detto in faccia!» «E comunque il chirurgo è bravissimo, mi ha tolto tutto! Ci torno a novembre!».
Non è più dialogo: è performance, figlia della nostra progressiva incapacità di disconnetterci e della necessità, sempre più profonda, di essere visti e ascoltati in un mondo che ci lascia indietro a ogni scroll.
Secondo il Censis la quasi totalità degli italiani è connessa quotidianamente e quasi il 90 per cento usa lo smartphone come principale strumento d’accesso al mondo, mentre un’indagine condotta da Doxa-Telefono Azzurro ha recentemente posto l’accento sul fatto che gran parte dei ragazzi tra 12 e 18 anni prova molta o moltissima ansia quando è lontano dallo smartphone.
Chiunque frequenti i treni, poi, sa che la maggior parte delle chiamate fatte a bordo non riguardano motivi urgenti, ma conversazioni personali apparentemente non procrastinabili.
Non procrastinabili da chi, e perché? Da noi, forse. Da generazioni – non solo la famigerata Z – che temono il silenzio come una minaccia, come l’attesa di una spada di Damocle o, peggio, l’arrivo di un esame di coscienza. Il silenzio è diventato sospetto. Chi tace, oggi, sembra assente. Non lascia traccia, non dice dove si trova, non racconta la sua giornata. Non è morto, certo, ma quasi peggio: è disconnesso.
E allora via, tutti a parlare, a spiegare, a giustificarsi. I mezzi di trasporto, le sale d’attesa, persino le file al supermercato, sono diventati palcoscenici dove ognuno recita il proprio monologo.
E chi ascolta non è un origlione, un impiccione, ma un ostaggio acustico da cui ci si aspetta – forse – anche un contributo. Siamo costretti a sapere tutto: litigi familiari, diagnosi mediche, strategie aziendali, tradimenti, tagli di capelli. Un’invasione collettiva dell’intimità altrui, offerta con entusiasmo e senza filtri.
Eppure non si tratta solo di mancanza di buona educazione. Non basterebbe a spiegare un fenomeno tanto pervasivo. Le linee guida di Trenitalia sull’Area del Silenzio dei Frecciarossa lo dicono chiaramente: niente telefonate, niente suonerie, rispetto del silenzio.
Eppure nessuna norma basta a contenere un bisogno così ancestrale. Passiamo, infatti, ore ed ore al giorno al telefono, metà delle quali in contesti pubblici. Dunque noi non comunichiamo: trasmettiamo, pubblichiamo, diffamiamo senza che, dall’altro capo del filo, il prossimo ne sia perfettamente cosciente.
E mentre i contenuti diventano, per l’appunto, content, la comunicazione si fa – di pari passo – pubblica, autoreferenziale, celebrativa, istrionica, iperbolica. Il volume si alza, la voce si gonfia. Il vocabolario può diventare, a seconda della necessità emotiva o interpretativa, più forbito o volgare.
È fame. Fame di ascolto, fame di presenza. La stessa fame che ci spinge a postare, commentare, registrare note vocali di tre minuti. Chi parla a voce alta in treno, infatti, non cerca il suo interlocutore. Cerca un testimone. Vuole che qualcuno, chiunque, lo senta affermare: «Io ci sono. Esisto». E possa confermarlo.
Si dirà, è naturale. Per molto tempo l’isolamento è stato condizione temuta. La pandemia ce lo ha ricordato brutalmente. Eppure oggi la solitudine, il distacco, appaiono, davvero, alcuni dei pochi veri lussi rimasti. Una capacità di mantenere l’estraneità basata sulla sicurezza, sempre più labile, in sé stessi – e sulla abilità, ormai di pochi, di bastarsi.
Già perché mentre l’umanità continua a parlare, comunicare, dire, dire e ancora dire, chi sa tacere rischia di sembrare malato. Sospetto. Inaffidabile. E pochi si permettono di sfidare questo paradigma.
Attenzione, però, perché in agguato, oltre alla sfortuna che può colpire in ogni momento chi parla troppo e davanti a troppi, c’è un’altra amara verità: la voce più preziosa, autorevole e ascoltata è quella che bisbiglia, seconda solo a quella che non ha bisogno di essere sentita da tutti per esistere.