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 2025  ottobre 27 Lunedì calendario

La durissima legge Usa sui conflitti d’interesse ha due piccole eccezioni: il presidente e il suo vice

Certo, è difficile considerare seriamente il tema dei conflitti di interesse in una Repubblica in cui diventare presidente costa un miliardo di dollari e più. Eppure Donald Trump ha aperto una stagione nuova persino per una democrazia fortemente esposta ai poteri privati o para privati come gli Stati Uniti: l’attuale presidente americano monetizza la sua carica per sé, per la sua famiglia e per i suoi famigli. Vende oggetti con la sua firma come fosse un supermercato, legifera su settori in cui investe (le criptovalute, tra gli altri), remunera i donatori della sua campagna con ricchi contratti federali: in nove mesi alla Casa Bianca, soprattutto grazie alle stablecoin, ha aumentato il suo patrimonio di 4-5 miliardi di dollari e incassato profitti per circa un miliardo (vedi Il Fatto economico di lunedì scorso).
La domanda è: ma negli Stati Uniti, patria del liberalismo, dicono, non c’è una legge contro il conflitto d’interessi? Certo che c’è, e durissima, nata dopo le disinvolture e i crimini dell’amministrazione di Richard Nixon (parliamo del cosiddetto “Watergate”): ogni funzionario del ramo esecutivo è tenuto, pena la prigione, a evitare conflitti di interesse finanziari. Con due eccezioni: il presidente e il suo vice, oggi Donald Trump e J.D. Vance. La ratio della scelta fu di evitare, in un sistema in cui la presidenza ha tratti imperiali o regali, che i vertici politici dello Stato potessero trovarsi nella condizione di doversi astenere dal poter decidere alcune materie su cui avessero o avessero avuto interessi finanziari. Finora i presidenti americani, ancorché non vincolati, si erano volontariamente sottomessi al regime valido per i loro dipendenti: “Tutti gli altri presidenti dalla Guerra Civile in poi hanno evitato volontariamente i conflitti. Hanno capito quanto questo sia importante: l’esenzione presidenziale prevista dalla legge mina la fiducia del pubblico nel governo”, ha detto alla Cnn Richard Painter, che fu l’avvocato esperto in etica alla Casa Bianca di George W. Bush.
È così che siamo arrivati al tizio che vende orologi e calzini col suo nome sopra e si fa leggi con cui guadagna miliardi. Con un ulteriore aspetto paradossale: mentre Trump si trasforma in Walmart, chi lavora per lui è sottoposto a un’occhiuta procedura sui suoi beni ed è quasi sempre costretto a vendere proprietà e smobilitare investimenti.
Il caso di scuola è quello del segretario al Tesoro Scott Bessent, una vita nella finanza (fu tra gli affossatori della sterlina nel 1992, insieme a George Soros, per cui ha lavorato), in particolare a fondare e gestire hedge fund, dal 2015 a capo di Key Square. Bessent, insomma, è miliardario e da quando è entrato nel governo ha dismesso il 96% delle partecipazioni giudicate a rischio, ma i controllori federali a settembre gli hanno scritto – la lettera è finita sul New York Times – lamentandosi per il 4% restante, proprietà tra le quali c’è una fattoria per cui non si è ancora presentato un compratore…

E Trump? A gennaio il suo staff ha presentato il “piano etico” della futura presidenza, assicurando solo che Donald non avrebbe avuto “alcun coinvolgimento diretto” nella gestione della Trump Organisation e che la sua sarebbe stata la Casa Bianca “più trasparente della storia” degli Stati Uniti. Quanto al coinvolgimento negli affari non sappiamo, invece il “chissenefrega” rispetto ai conflitti d’interesse è decisamente trasparente.