Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  ottobre 27 Lunedì calendario

Con “Misery” le ossessioni di Stephen King a volte ritornano

Misery era originariamente una novella intitolata The Annie Wilkes Edition, e ispirata da un sogno che ebbe luogo sul Concorde che portava King in Inghilterra, all’inizio degli anni Ottanta. King sognò «una donna che teneva prigioniero uno scrittore, lo uccideva, lo scorticava, dava i suoi resti in pasto alla sua scrofa e rilegava il suo romanzo in pelle umana». Al risveglio, King trascrisse la scena su un tovagliolino di carta, per non dimenticarsela: «Lei gli si rivolge senza peli sulla lingua, ma non lo fissa mai in faccia. È una donna massiccia e robusta, un’assenza di iato. “Non intendevo mancarti di rispetto quando ho battezzato la mia scrofa Misery, nossignore. Per favore, non lo pensare nemmeno. No, l’ho fatto nello spirito del sincero amore di un’ammiratrice, il più puro che esista. Dovresti esserne lusingato”» racconta in On Writing.
Dopo essere atterrato in Inghilterra, King non riusciva a dormire e la storia continuava a ossessionarlo. Chiese al concierge del Brown’s Hotel di Londra se poteva trovargli un posto tranquillo dove scrivere. L’uomo lo accompagnò fino a un pianerottolo dove c’era una scrivania che un tempo era appartenuta a Rudyard Kipling. Quella notte, King riempì sedici pagine di un taccuino da stenografia. Così ricorda, sempre in On Writing: «Quando fu il momento di darci un taglio, mi attardai nell’atrio, ringraziando di nuovo il portiere per avermi permesso di usare quella meraviglia di scrivania. “Sono contento che ne sia rimasto soddisfatto” mi rispose con un vago sorrisetto malinconico, quasi avesse conosciuto Kipling di persona. “A dire il vero, lui è morto proprio lì. Per un ictus, mentre scriveva”. Tornai di sopra per dormire qualche ora, pensando a quanto spesso ci vengono date informazioni di cui avremmo fatto volentieri a meno».
Misery fu ispirato anche dal Collezionista di John Fowles, e dal racconto di Evelyn Waugh L’uomo che amava Dickens. Dopo aver letto quest’ultimo, King si chiese cosa sarebbe successo se Dickens fosse stato tenuto prigioniero. «E poi cominciai a domandarmi: “Che cosa vorrebbe da lui quella persona mezza pazza?”. E la risposta mi parve decisamente ovvia: quella persona mezza pazza avrebbe preteso altre storie, ma scritte come voleva lei. Lo scrittore si sarebbe trasformato in sostanza in una sorta di segretario della sua follia. E poi pensai: “Se mi trovassi in quella posizione, sarei in grado di obbedire?”. E la risposta fu: “Certo. Farei questo e anche molto di più, pur di sopravvivere”».
L’idea originale di Misery era ancora più brutale del suo esito finale: Annie Wilkes aveva in programma di uccidere Paul Sheldon, offrirlo in pasto alla sua scrofa – battezzata Misery, come l’eroina dei libri di Paul – e prendere la sua pelle per rilegare il romanzo che Paul aveva scritto per lei. La vena del romanzo era così nera che, inizialmente, King aveva pensato di pubblicare Misery con lo pseudonimo di Richard Bachman, in modo da fare approdare “Dicky” in vetta alle classifiche di vendita. La scoperta del trucco dietro il suo pseudonimo lo indusse a rinunciare a quel progetto, anche se tornò a ricorrere al suo nom de plume un altro paio di volte, per I Vendicatori e per Blaze.
Con una prima tiratura di 900 mila copie, Misery si piazzò al quarto posto assoluto nelle classifiche dell’anno, e ottenne recensioni sorprendentemente positive: il New York Times, un giornale che non era certo noto per aver accolto con favore i romanzi precedenti di King, lo definì «un libro decisamente coinvolgente», mentre Usa Today lo salutò come «il miglior romanzo di King». Alcuni lettori, però, interpretarono il libro come una critica agli ammiratori più appassionati dell’autore, soprattutto per via della dedica criptica a Stephanie e Jim Leonard, «che sanno perché. E se lo sanno, ragazzi!». Stephanie, la cognata di King, era anche la sua assistente personale e la redattrice di Castle Rock, una newsletter mensile distribuita a più di 5 mila abbonati.
Durante le interviste ai media per il lancio del libro, King trovò ripetutamente il modo di ribadire il suo affetto nei confronti del fandom: «Considero la scrittura un atto di comunicazione con gli altri, un modo di creare un contatto con il prossimo. La gente sembra gradire quello che faccio, e io ho sempre desiderato soddisfare il prossimo. Sono stato educato in questo modo. È stata una delle prime cose che mi ha insegnato mia madre; in altre parole, mi ha sempre detto di non vivere solo per me stesso». Ma Steve decise anche di chiarire alcune questioni: «Sono ancora i fan a comprare il cibo che metto in tavola ogni giorno. Da un certo punto di vista, l’idea che alla gente piaccia quello che faccio continua a stupirmi al punto che non posso fare a meno di amare i miei lettori. Ma se compri un mio libro, passi due o tre giorni a leggerlo e la cosa ti soddisfa… beh, è tutto quello che meriti, da me. Non puoi comprare altro, con i tuoi diciassette dollari e novantacinque centesimi. Non hai il diritto di irrompere in casa mia, o nella mia vita, o nella mia camera da letto. Ho fatto da parafulmine per un certo numero di persone che erano completamente fuori di testa. Ho un fascicolo su ognuno di loro. I fan più devoti provano un desiderio divorante di identificarsi emotivamente con l’oggetto della loro venerazione, e in qualche modo sentono che i miei successi spettano di diritto a loro prima che a me».
La moglie di King, Tabitha, è stata ancora più esplicita e diretta nel suo contributo, pubblicato sulle pagine di Castle Rock: «Ho letto diverse lettere addolorate, rabbiose e offese da parte di alcuni fan, erroneamente convinti che, in Misery, Steve abbia dato voce ai suoi veri sentimenti nei confronti dei propri lettori. Poiché considero autentico il disagio che ho colto in queste lettere, voglio contribuire ad alleviarlo, per quanto possibile. Se (Annie Wilkes) è l’incarnazione di un fan, probabilmente si tratta di Mark Chapman (il pazzo che ha ucciso John Lennon)… Ma forse, cosa ben più importante, Annie Wilkes è una metafora dell’impulso creativo… e Misery parla dei tanti modi in cui una persona creativa può essere tormentata dai suoi stessi poteri, fino a dipendere totalmente dall’atto creativo, con tutti i danni che ne conseguono».
Il termine “dipendenza” introduce un altro tema sotteso a tutto il romanzo. Come King ha spiegato in diverse occasioni, e più specificamente nell’intervista del 2006 alla Paris Review: «Sapevo cosa stavo scrivendo. E lo sapevo con la massima chiarezza. Annie era il mio problema con la droga, e al tempo stesso era la mia fan numero uno. Dio santo, non mi avrebbe mollato per nessun motivo al mondo». Ma il romanzo era anche un modo di celebrare la dipendenza più grande e più duratura nella vita di King: quella dalla scrittura, con la sua capacità di redimere. È per questo che King ha introdotto nel romanzo una serie di riferimenti sistematici alle Mille e una notte, in cui Sheherazade rinvia la sua condanna a morte raccontando al re una storia eccitante e promettendogliene un’altra ancora migliore per la notte successiva.