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 2025  ottobre 27 Lunedì calendario

Intervista a Piero Pelù

La musica è la sua vita da quando, a 8 anni, si è comprato la prima chitarra. «Mettendo da parte le paghette, tanto ci credevo». Il rumore invece è il suo incubo da tre anni a questa parte, un fischio incessante che lo tormenta ogni minuto e «ogni fottuta notte fino all’alba». Eppure Piero Pelù non si è lasciato vincere dallo shock acustico che l’ha fatto cadere svenuto nell’ottobre 2022, per l’errore di un fonico nell’uso delle cuffie. Costretto a rimandare due tournée, fa i conti da allora con una forma incurabile di acufene. «Purtroppo la ricerca su questo male è ferma e, condividendo la mia storia sui social, mi sono reso conto che ne soffrono in tantissimi» racconta il 63enne autore, frontman e cofondatore dei Litfiba, che dopo un periodo di depressione ha trovato un modo per tornare in scena senza soffrire troppo. Nel 2024 ha pubblicato l’album Deserti. Ad aprile è stato in tour con Il Ritorno del Diablo. A inizio ottobre ha regalato ai fan il brano Sos, scritto per la Palestina, scaricabile dal suo sito (pieropelu.net).
«E ho preso spunto da quello che mi è successo per scrivere una storia e metterla in immagini». 
Risultato: Piero Pelù. Rumore dentro, distribuito da Nexo Studios e presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, è un film sceneggiato da lui e diretto da Francesco Fei, nelle sale tre giorni come evento il 10, 11 e 12 novembre e in anteprima il 5 novembre al Festival dei Popoli. Come dice il rocker, non è un documentario o un biopic ma «semplicemente un viaggio fuori dalle strade comuni». Alla ricerca di una nuova normalità. Lo vediamo in Marocco tra le rocce dipinte di blu dall’artista Jean Vérame, o in Camargue a Saintes Maries de la Mer, dove gitani e rom venerano Santa Sarah: «È la protettrice dei viaggiatori e degli esclusi. Sono laico ma ho un tatuaggio con il suo nome su un braccio». Vediamo i suoi mondi di oggi e di ieri. A Firenze, dov’è cresciuto, appare con le tre figlie di cui non parla mai, blindato com’è sul privato (hanno 35, 30 e 21 anni e sono nate da due relazioni finite; dal 2019 è sposato con la pianista Gianna Fratta). Ripercorre la sua storia a cominciare dalla «placenta della mia vita artistica in via de’ Bardi», attraverso foto e filmati. Nel racconto – e nella voce narrante – si sente l’amore per le parole nato al liceo classico: «Re-agire. Agire di nuovo. Inventarsi un te stesso nuovo» dice nel film. «Liberare la mente prima che sia lei a liberarsi di te».

La creatività l’ha aiutata a convivere con l’acufene, se non a liberarsene?
«Purtroppo dovrò farci i conti finché vivo: la forma che ho, dovuta a un trauma, è la più cattiva. Un fonico incapace mi ha fatto esplodere una bomba nelle orecchie, in cuffia. Per fortuna, anziché la sordità, ho un’ipersensibilità a certe frequenze e con il tempo sono riuscito a inventarmi un sistema per cantare. Devo mettere spesso i tappi quando sono tra la gente o esco a cena, se ci sono rumori di piatti o voci acute che mi feriscono».
Ha affrontato la depressione: ne soffriva anche prima dell’incidente?
«Non so se lo choc sia stato scatenante ma, da allora, gli up e i down sono stati frequenti. Ci sto ancora lavorando, e mi aiutano molte cose. La musica, gli amici, i viaggi, la barboncina che viene con me ovunque, pure alla Mostra del Cinema di Venezia. Si chiama Tina, come mia nonna e Tina Modotti. E come altre Tine della musica: la Turner, la Weymouth bassista dei Talking Heads. Mi ha aiutato molto girare il film: ho potuto parlare di tutto questo in maniera artistica».
Com’è stato rimettere insieme foto e filmati dei suoi inizi anni 80?
«Non sono un nostalgico ma essere un po’ isolato dal mondo, negli ultimi tre anni, mi ha portato a re-incuriosirmi del mio stesso percorso ed è stato divertente riscoprire ciò che ho fatto di bello. Ho riaperto un enorme baule di ricordi, un archivio sconfinato di filmini in Super 8, passione ereditata da mio padre e mio nonno. Li avevo girati e poi conservati coi sali minerali per proteggerli dall’umidità. Mi hanno regalato sorprese meravigliose».
Come un video dei suoi genitori.
«Girato una sera che avevano probabilmente bevuto un vinaccio, visto che mio padre ha la lingua nera. E, coincidenza, avevano la stessa età che ho io ora. Sono cresciuti durante la guerra, mia madre ancora soffre di claustrofobia per via dei rifugi antiaerei, poi però si sono sposati e hanno formato la famiglia borghese perfetta, con la casa a Firenze e la casina al mare, le vacanze, gli amici. Sono due highlander. Mio padre ha 98 anni, l’Alzheimer lo sta divorando ma ha sprazzi di lucidità fantastici, l’altro giorno mi ha visto e ha detto: “Oh, il diavolo gigante!”».
Come vivevano il figlio rockettaro?
«Male, malissimo, anche dopo il successo. Mia madre soprattutto, aveva il rigetto del figlio ribelle che ero».
Non tutti i fan ricorderanno che lei ha frequentato il liceo classico.
«Ne ho cambiati due. Al Dante ho passato gli anni più brutti della mia esistenza ma anche quelli che, dopo, mi hanno dato la motivazione per scrivere, suonare, girare il mondo, diventare un viaggiatore anche un po’ compulsivo. Sono irrequieto, un “campaniano”: Dino Campana è uno dei miei poeti preferiti, l’ho anche interpretato a teatro».
Compulsivo in che senso?
«Ho sempre avuto bisogno di muovermi. Forse perché mio padre, per lavoro, si spostava da una città all’altra e noi lo seguivamo. Da bambino ho cambiato spesso scuole e compagni, ho imparato ad adattarmi ed è stata una palestra fantastica: oggi sono a mio agio in situazioni disparate, dalla festa gitana agli incontri con grandi stilisti. E viaggiare mi è di grande ispirazione nella scrittura: ti estranei dalla quotidianità e vai di fantasia. Lo faccio anche guidando, una forma di meditazione. Quando mi girano le scatole, nulla di meglio che prendere un camper e sparire per una settimana».

Come mai Londra la deluse?
«Per un ragazzo punk era il posto dove andare e io mi ci sono trasferito nell’80 pieno di speranze, con l’idea di creare lì la mia band. Poi scoprii che la scena musicale era poco spontanea, più estetica che vera. E Londra era una città senza empatia. Non successe niente e decisi di tornare a Firenze».
Il suo look Anni 80 pare quasi meno irriverente di quello attuale.
«Però al Trocadero di Parigi mi arrampicavo sulle statue per leccarne i capezzoli…
Andavamo nei cimiteri della Francia sperduta, sotto la neve, perché mi riconoscevo nell’atmosfera gotica. Portavo un cappotto da Piotre degli Urali, il personaggio tsigano nel quale mi identificavo all’epoca».
Tornando alla sua infanzia, com’era nata la voglia di suonare?
«Ascoltando Revolver dei Beatles, per riprodurre le canzoni di quei geni assoluti. E poi i Black Sabbath. In vacanza coi miei a Parigi, entrai con mio fratello in un negozio di dischi e mi colpì la copertina di Paranoid, con un guerriero dalla scimitarra luminosa».
A 8 anni la prima chitarra, ce l’ha ancora?
«Era una Eco Eldorado comprata con le paghette, m’è rimasto il manico ma lo conservo gelosamente».

È sempre stato un attivista che tocca temi come guerra o ambiente. Li sente ancora più attuali?
«A vent’anni ero un obiettore di coscienza e rischiavo di finire nel carcere militare. Non vorrei che tornassero tempi così, o peggio: quello che stiamo vivendo ora ricorda gli anni più bui della storia».
Ha passato i sessant’anni: come vive quest’età della vita?
«Per l’esattezza, 63 e mezzo. Dopo eccessi e privazioni sono contento,: ho trovato un buon equilibrio tra ricerca della libidine e salute. Le giuste dosi di alcol, cibo e tutto il resto».