Sette, 27 ottobre 2025
Daria Bignardi: «Da ragazza frequentavo i collettivi, guardando mia figlia penso che il patriarcato sia alla fine. Il mio divorzio? Come una casa che crolla»
Servono molti tentativi e incontri per diventare noi stessi: è una delle cose a cui si pensa leggendo il nuovo libro di Daria Bignardi, Nostra solitudine (Mondadori). Personal essay in raro equilibrio tra racconto, meditazione e reportage, usa il tema della solitudine privata come miccia narrativa per rischiarare il presente e la vita di tutti noi. Tra Milano, il Vietnam, l’Ucraina, la Cisgiordania, Gerusalemme e l’Uganda, e con l’aiuto di molti alleati umani e non – cani, gatti, galline, gorilla –, Daria Bignardi si rispecchia nel suo fondo di selvatichezza, fino a trovarci dentro qualcosa di più ampio, politico, universale. E intravedere sentieri su cui, forse, immaginare nuove forme di alleanza.
Un libro sulla solitudine, ma molto affollato.
«Chiude la trilogia iniziata con Libri che mi hanno rovinato la vita e Ogni prigione è un’isola. Sentivo di non aver finito coi temi dell’isolamento e dell’ombra. In Amazzonia, tra caimani, cobra e tarantole, ho avvertito pienezza: volevo scrivere anche del bisogno di stare su una frequenza dove sentire la connessione tra i viventi».
Da dove ha iniziato?
«Con mio figlio Ludovico siamo stati in Vietnam per i cinquant’anni dalla fine della guerra: al ritorno m’è venuta una gran tristezza. Il mio terapeuta mi ha proposto di vedere un esperto di EMDR. Ho fatto un tentativo: “Può essere un trauma dell’infanzia. O di quando stava ancora nella pancia di sua madre”. Ho interrotto gli incontri, non ero a mio agio. Ma mi sono decisa a ricostruire la storia della mia solitudine».
Allargando il campo.
«Ho ripensato al Vietnam: cosa mi faceva sentire sola? La globalizzazione, una smania di vendere e comprare. Poi, a fine gennaio, c’è stata una prima tregua tra Israele e Hamas. Tutti parlavano degli ostaggi israeliani e nessuno delle condizioni dei prigionieri palestinesi. Devastati, scheletrici: riferivano di torture e abusi. Ho deciso di provare a incontrarli».
A Milano ha conosciuto Wael Al-Dahdouh, il giornalista di Al Jazeera che ha perso moglie e figli nei bombardamenti.
«Non voleva parlarne perché, dice, non può permettersi di piangere. Sente la responsabilità di essere un esempio. Incontri uno così e pensi: “Ma io ho diritto di pensare ai miei traumi?”. Ho capito che la mia sofferenza c’entrava con queste forme di solitudine. Sono partita per At-Tuwani, il villaggio in Cisgordania di No Other Land, dai ragazzi di Operazione Colomba, l’Ong che accompagna i pastori per evitare che i coloni gli sparino. Dormono con loro quando temono di essere aggrediti, sono guardie del corpo disarmate».
Lì, la solitudine?
«Vietata: non si può mai stare soli. Volontari e cooperanti risentono di questa socialità ininterrotta. La solitudine serve anche per ricaricarsi, elaborare ciò che ci accade. Come un’onda: da un lato la soffriamo, dall’altro la desideriamo. Scrivendo ho capito che, come dice Emily Dickinson, sono anche affezionata alla mia solitudine».
Ne evoca il volto politico.
«La relazione con l’altro ci fa capire noi stessi, ci tiene insieme. Non a caso, in carcere, l’isolamento è la punizione estrema. Cecilia Sala è stata bravissima a raccontarlo. Le nostre emozioni non sono solo nostre: sono sistemiche, hanno a che fare con tanti tipi di oppressione. Il capitalismo, la globalizzazione, l’oppressione di uno Stato rispetto a un altro. E il patriarcato: racconto di quando sono nati i miei figli. Lavoravo tanto: scrivo della fatica che facevo nel cercare di essere la madre perfetta, l’angoscia che provavo».
Non dà l’idea dell’angelo del focolare.
«Nonostante avessi letto tutta Virginia Woolf e le altre femministe, quando ho avuto una famiglia e dei figli sono stata colpita da un incantesimo: ho dimenticato tutto. Non rimprovero nulla agli uomini che avevo a fianco: a me stessa sì. Perché io queste cose le avevo studiate. In tante donne c’è una vocazione all’accudimento rischiosa. Viene meno lo spazio per elaborare i propri vissuti».
Le ventenni di oggi?
«Mia figlia e le sue amiche le vedo attentissime a non farsi incastrare. Riconoscono, nelle loro mamme e nonne, qualcosa da non replicare. Guardandole, come dice Luisa Muraro, sembra davvero che il patriarcato sia al capolinea. Spero poi non vengano colpite anche loro dall’incantesimo».
Altro tema è l’amore/odio per i social network.
«Uso molto WhatsApp: senza, non riuscirei ad avere una vita così ricca di rapporti. Figli, amici, flirt. Ma all’inizio dell’anno ho cercato di uscirne: era invadente la figura di Musk, questi oligarchi costruiscono fortune sulla nostra solitudine. Non credo si possano avere ricordi autentici di cose che abbiamo visto su TikTok: il digitale crea una memoria e un’esperienza esile».
I viaggi rimettono il corpo al centro.
«Sono tornata dall’Ucraina, il primo Capodanno dopo l’invasione russa, e ancora di più dalla Palestina, col senso che quelle situazioni mi riguardassero direttamente. Finché ti limiti alle immagini a distanza tutto resta in superficie. Per esempio, l’incontro con la scrittrice Suad Amiry. Mi ha detto: “Voi occidentali non venitemi più a parlare dei vostri valori: non ci credo più. Se permettete che tutto questo accada, se restate a guardare mentre i bambini vengono ammazzati, siete responsabili”».
Cos’ha pensato?
«Che ha ragione».
Nel libro sono centrali i giovani volontari e cooperanti.
«Le nuove generazioni riconoscono che siamo tutti collegati. Che il capitalismo e la globalizzazione c’entrano con la guerra, e che quindi, in quanto occidentali privilegiati, il destino dei popoli oppressi ci riguarda».
Molti anche gli animali.
«Un’immediata connessione con la vita: con le persone a volte è più complicato, per tutte le sovrastrutture e proiezioni. In certi occhi animali si va immediatamente all’incontro profondo».
Pensa sempre di prendere un cane?
«Sì, ma ho un gatto di diciassette anni: non sarebbe contento. Mio padre faceva il rappresentante di mangimi. A tutti i cagnetti che incontrava, diceva: “Ehi, Giovanni!”. E quelli gli saltavano in braccio. Anch’io come lui, giro per strada e guardo continuamente i cani».
Li guarda e?
«Sento i loro caratteri, un’affinità. Lo stesso accade con certi artisti e scrittori dalla vita inquieta o avventurosa. Come i reporter di guerra. Animali e artisti condividono un rapporto con la verità delle cose».
Fa i conti anche con la popolarità televisiva.
«Alla televisione sono arrivata per caso. Da ragazza frequentavo i collettivi: ho sempre amato più gli ambienti underground. Solo di recente mi sono resa conto del legame tra solitudine e pregiudizio: la superficialità e l’esagerazione della tv ti restano addosso».
Racconta di un barista, forse ex detenuto, che ha avuto una reazione aggressiva.
«Frequento il carcere da trent’anni. Magari dalla tv non gli stavo simpatica. Ho pensato: “Ma come? Io sono più vicina al tuo mondo che a quell’altro”. Il pregiudizio è il contrario dello sguardo animale: se uno crede che tu venga da un altro pianeta, o faccia chissà che vita, ti fa sentire subito lontana. E quindi sola».
Tra le pagine più intense: il viaggio in Uganda.
«Coi medici che operano bambini cardiopatici. Sono stata anche in una scuola: novecento bambini, dai tre ai tredici anni. Se non sono orfani, vedono la famiglia ogni tre mesi. Le bambine, soprattutto, mi chiedevano di rimanere con loro, abbracciarle, tenerle per mano. Mi portavano a vedere le scatole col poco che possiedono. Ho capito che non è un caso che lavoro coi detenuti ma non al minorile: il dolore di bambini e adolescenti mi strazia».
È la prima volta che racconta della fine del matrimonio con Luca Sofri.
«Il divorzio è una casa che crolla: credo sia stato quello ad avermi riportata ai traumi originari. Senza, forse non sarei arrivata a fare i conti con la mia solitudine. In Uganda, nella foresta, ho incontrato i gorilla: il loro sguardo primordiale mi ha fatto tornare alla mente un episodio».
Ovvero?
«Mentre ci stavamo separando, in casa ho creato una specie di altare. Un barbagianni impagliato, pelli di coniglio dei nativi americani, una piuma d’aquila, piante, minerali. Poi, in un negozio di giocattoli, ho comprato delle galline gonfiabili e le ho appiccicate tutte per terra, all’ingresso. I miei figli mi guardavano perplessi. Non sapevo perché lo stessi facendo».
E ora?
«Facendo questo viaggio nella solitudine, mi sono resa conto che forse, in quel momento di crisi, stavo chiedendo protezione al mondo animale».