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 2025  ottobre 27 Lunedì calendario

Cos’è la «Dottrina Donroe» messa in campo da Trump con il Venezuela (che piace ai MAGA e spaventa i vicini)

È tornata la «Dottrina Donroe», e ha tutti gli ingredienti per piacere all’America trumpiana, detta anche MAGA (acronimo di Make America Great Again). Negli ultimi giorni Trump ha aumentato la pressione militare sul regime Maduro in Venezuela, ha moltiplicato i raid contro le navi dei narcos colombiani e venezuelani, ha litigato con il Canada, è sceso in campo per aiutare Javier Milei nell’elezione legislativa argentina. Le Americhe, l’emisfero occidentale, sono il teatro di un rinnovato interventismo statunitense.
«Dottrina Donroe» (Donald+Monroe) è il neologismo coniato subito dopo la seconda vittoria elettorale di Trump, per cercare un precedente storico e una coerenza nelle sue primissime uscite in politica estera: l’anelito a controllare (o addirittura annettere) Groenlandia e Panama, il dileggio verso il Canada trattato come il 51esimo Stato Usa.

La Dottrina Monroe, quella originaria, nacque 202 anni fa. Prese il nome dal presidente James Monroe: nel 1823 definì il ruolo preminente che gli Stati Uniti si assegnavano nell’emisfero occidentale, e le loro relazioni con l’Europa dove risiedevano ancora i maggiori imperi coloniali. Tradotta in termini spiccioli, a quella concezione si fa risalire l’idea che le Americhe, dalla Terra del Fuoco ai confini artici, sono «il cortile di casa» degli Stati Uniti, e nessuna interferenza di altre potenze deve essere tollerata.
Quella Dottrina all’origine includeva anche una robusta dose di isolazionismo: il principio di non interferenza nelle vicende dell’Europa. Soprattutto voleva chiudere per sempre l’era della colonizzazione europea in America latina e nei Caraibi. In quel contesto storico la Dottrina Monroe era decisamente progressista. Appoggiava le lotte per l’indipendenza che già avevano emancipato molti paesi latinoamericani, e prometteva che non sarebbero stati alla mercè di un ritorno del colonialismo. Inoltre era una risposta moderna, avanzata e democratica, al messaggio del Congresso di Vienna (1815): dove i regimi monarchici e conservatori del Vecchio continente avevano chiuso le guerre napoleoniche con una serie di restaurazioni liberticide.
Col passare del tempo la Dottrina Monroe sarebbe diventata qualcos’altro: il fondamento per costruire una politica estera da superpotenza, cominciando con l’affermazione di una propria sfera d’influenza. Con il presidente William McKinley nel 1898 l’America scese in guerra contro la Spagna per cacciarla dagli ultimi possedimenti coloniali. Anche in questo caso la motivazione originaria era progressista: gli Stati Uniti appoggiavano la lotta di liberazione dei cubani e di altri popoli oppressi dal colonialismo spagnolo. L’esito finale della guerra però condusse gli Usa a controllare sotto forma di protettorati i territori di Cuba, Portorico, e nel Pacifico le isole delle Filippine e Guam. 
Poco tempo dopo Theodore Roosevelt fu il primo presidente «imperiale», per l’espansione del potere esecutivo e per la visione dell’America come superpotenza. 
Della Dottrina Monroe si possono trovare tracce nel comportamento del democratico John Kennedy nella crisi dei missili sovietici a Cuba, 1962: si sfiorò il conflitto nucleare perché la superpotenza nemica (l’Unione sovietica) aveva tentato di insediare arsenali nucleari a poca distanza dalla Florida. Un’altra stagione di imperialismo Usa è quella segnata dall’appoggio di Washington a diverse dittature militari (la più importante è in Brasile, dal 1964), dal ruolo della Cia nel golpe che depone il socialista Allende in Cile (1973). Ma anche quando il segno dell’influenza Usa è cambiato e Washington ha cominciato ad appoggiare transizioni democratiche (Brasile incluso), si è visto all’opera un nuovo tipo di «ingerenza».
Nella sua versione contemporanea la Dottrina Monroe ha l’avallo della scuola del realismo geopolitico. Le potenze, secondo questa scuola, hanno un interesse strategico a gestire le proprie sfere d’influenza. Nel caso degli Stati Uniti la geografia comanda: hanno due oceani a proteggerli dai nemici, e un continente ricchissimo di risorse agricole, minerarie, energetiche, umane. Basta quindi evitare che un avversario prenda piede nell’emisfero occidentale.
Assicurarsi che ai due confini settentrionale e meridionale ci siano Paesi amici, è il primo passo. Da tempo però i nemici dell’America sono riusciti a invadere questa sfera d’influenza: Mosca con la rivoluzione castrista a Cuba dal 1959, poi con altri regimi filosovietici o comunque russofili, da ultimo il Venezuela. 
La Cina è presente come investitore e partner commerciale di molti paesi, ha cooptato il Brasile nel club dei Brics, sfrutta risorse minerarie dalla Bolivia al Cile all’Argentina, ha fabbriche in Messico, costruisce infrastrutture in quei paesi latinoamericani che hanno aderito al suo piano Belt and Road Initiative (più noto in Italia come le Nuove Vie della Seta).
Trump lanciò la sua scalata al partito repubblicano dieci anni fa contestando le «guerre dei Bush», cioè gli interventi militari Usa in Medio Oriente (Bush padre fece la prima Guerra del Golfo nel 1991, il figlio invase l’Afghanistan nel 2001 e l’Iraq nel 2003). La base Maga condivide l’idea che l’America ha problemi più pressanti da risolvere in casa propria, anziché fare il gendarme del mondo spendendo risorse ingenti per occuparsi degli affari degli altri. Ma la base Maga è disposta a fare un’eccezione per l’America latina, proprio perché questa è «casa propria». Dai paesi confinanti possono arrivare minacce e problemi, come l’immigrazione illegale, il narcotraffico. I paesi confinanti possono anche diventare teste di ponte per la penetrazione del «made in China».
Da quando Trump ha lanciato i primi segnali della sua Dottrina Donroe, il bilancio delle sue azioni/provocazioni è ben diverso se lo si osserva dal punto di vista della base Maga, oppure dei paesi destinatari. Le primissime uscite di Trump – in certi casi antecedenti all’Inauguration Day, quando non si era ancora insediato – sono state su Panama e Groenlandia. Nel primo caso l’obiettivo è stato raggiunto: Panama è uscito dalle Nuove Vie della Seta e sta liberando il suo Canale dall’influenza cinese. La Groenlandia resta della Danimarca però Copenaghen sembra essersi svegliata dal suo letargo strategico: aumenta le spese per la difesa, introduce la leva obbligatoria, e una parte delle sue risorse militari andranno a presidiare quella regione artica insidiata da Russia e Cina.
Dopo il suo insediamento Trump ha moltiplicato attacchi e provocazioni nei confronti dei vicini, quasi sempre con finalità che piacciono alla base Maga. Il confine col Messico è tornato sotto controllo, i flussi di migranti illegali sono crollati rispetto all’epoca Biden. Gli attacchi militari contro le navi dei narcos nell’Oceano Pacifico (Colombia) o nel mar dei Caraibi (Venezuela) sono popolari visti i danni enormi inflitti dalle droghe negli Stati Uniti. L’obiezione mossa dall’opposizione democratica, che i raid uccidono senza un processo legale, sorvola sul fatto che Barack Obama fece lo stesso contro i jihadisti: esecuzioni extra-giudiziali, nemici eliminati con missili e droni senza alcun processo (incluso un caso celebre di un cittadino americano), in paesi ai quali gli Usa non avevano dichiarato guerra.
Trump ha mostrato i muscoli militari contro il dittatore venezuelano Maduro, e anche qui si è attirato accuse di golpismo. Però fin dai tempi di Obama gli Stati Uniti hanno denunciato le elezioni venezuelane come delle truffe anti-democratiche e hanno sostenuto che al posto di Maduro dovrebbero esserci i suoi oppositori, veri vincitori degli scrutini. 
La capa dell’opposizione venezuelana insignita dell’ultimo Premio Nobel per la pace ha invocato esplicitamente (anche in una recente intervista al Corriere) l’aiuto degli Stati Uniti per cacciare l’autocrate illegittimo di Caracas. Nella base Maga l’ostilità verso il Venezuela ha un duplice motivo: quel regime si finanzia col narcotraffico; il disastro economico di Maduro ha spinto alla fuga verso gli Usa milioni di migranti illegali.
Un’altra ingerenza di Trump in un paese sudamericano: i dazi del 50% al Brasile, motivati dalla condanna dell’ex presidente Bolsonaro, un trumpiano accusato di golpismo. La condanna di Bolsonaro è venuta da una Corte suprema iper-politicizzata, uno dei tanti casi di accanimento giudiziario contro un politico sconfitto (vizio che accomuna destre e sinistre di molti paesi). Qui entriamo però in un campo dove la base Maga è del tutto indifferente: i regolamenti di conti fra Trump e governi stranieri sono molto distanti dagli interessi concreti degli elettori. 
Lo stesso vale per il salvataggio finanziario che Trump promette all’Argentina, con un intervento a favore del suo amico e alleato Javier Milei, offerta che può averlo aiutato a ottenere il prezioso successo elettorale di ieri. Anche qui l’elettorato operaio di Trump è freddo, o perfino ostile all’idea di un aiuto di venti miliardi a un paese straniero.
Un caso a parte merita l’interminabile braccio di ferro con il Canada. Questo è un paese che ha intensi rapporti commerciali con gli Stati Uniti, ma perciò stesso è anche un concorrente in diversi settori dall’acciaio all’automobile. Il protezionismo di Trump perciò piace alla base Maga (e non piace al capitalismo Usa). Qualche vantaggio concreto è già visibile: due big dell’automobile Usa, Ford e Stellantis-Jeep-Fiat, annunciano disinvestimenti dal Canada per riportare risorse e capacità produttiva sul suolo statunitense. 
Una nota di colore: l’ultimo scatto d’ira di Trump contro il Canada è stato provocato da una campagna pubblicitaria dello Stato dell’Ontario. Questa usava contro Trump il video di un discorso del presidente repubblicano Ronald Reagan ostile ai dazi. Reagan, campione del neoliberismo, rimane il più ammirato di tutti i presidenti repubblicani. Però in quel discorso usato dall’Ontario, Reagan dichiarava la sua contrarietà di principio ai dazi… proprio mentre era sul punto di vararne una raffica. Tra le varie iniziative protezioniste di Reagan ci fu pure una guerra monetaria, che gli economisti Maga sognano di replicare.
La Dottrina Donroe dunque ha numerosi ingredienti che piacciono alla base trumpiana. Diverso è il suo impatto nei paesi riceventi. Dal Canada alla Colombia, dal Brasile al Venezuela, le offensive di Trump ravvivano tutti i vecchi nazionalismi anti-yankee, l’ostilità nei confronti del «bullo di Washington». È una storia antica, dai tempi di McKinley e Theodore Roosevelt a quelli di Kennedy e Nixon, per finire con le micro-guerre di Reagan (Grenada) o lo scandalo Iran-Contra sui finanziamenti ai guerriglieri di destra in Nicaragua, l’America latina ha una memoria storica densa di brutti ricordi, e per i suoi leader cavalcare l’odio anti-yankee è sempre una ricetta di sicura popolarità. In quanto al Canada, si sente più britannico ed europeo che mai, al punto che i suoi turisti sono gli unici a disertare davvero gli Stati Uniti.
La Dottrina Donroe non esaurisce l’attività internazionale di Trump. Rispetto al 1823 la potenza americana è cresciuta a dismisura, è impensabile che si accontenti di curare i propri interessi nell’emisfero occidentale. Da Gaza all’Ucraina, Trump è costretto a occuparsi di conflitti lontani come ogni presidente che lo ha preceduto. Gli interessi economici dell’America, e le sue responsabilità militari, tornano d’attualità in questi giorni con la sua tournée asiatica che lo porta a visitare paesi alleati (Giappone, Corea del Sud) e l’antagonista numero uno (Cina). Tuttavia, nella misura in cui la Dottrina Donroe aiuta a decifrare la sua azione nelle Americhe, la chiave è abbastanza semplice: la priorità assoluta data agli interessi nazionali piace alla base Maga e può darle dei benefici; ma ciò che promuove un’agenda nazionale può resuscitare nei paesi vicini antichi rancori per le prepotenze del passato.