Corriere della Sera, 27 ottobre 2025
«Con il suo aereo ci portava al mare, era molto dolce nella vita privata. Amava pescare e andare a caccia. Incidente in volo? Fu un attentato»
Qual è un ricordo di suo zio Enrico Mattei.
«Un giorno in estate eravamo in montagna in Alto Adige, io, mio fratello e mia mamma dovevamo andare in Toscana e mio zio si offrì di accompagnarci con il suo aereo. Siamo partiti con un bimotore, la pista era bagnatissima e piccolissima, bagagli non potevamo portarne. Ricordo un volo terrificante, perché già al decollo si vedevano le cime dei pini a pochi metri».
A scavare nella memoria della sua infanzia è Elisabetta Mattei, nipote di Enrico, fondatore e presidente dell’Eni fino al giorno della sua scomparsa, quando il 27 ottobre di 63 anni fa morì in un incidente aereo a Bascapè (Pavia). Quello schianto ha alimentato una moltitudine di inchieste, sospetti, depistaggi e teorie del complotto.
«Quel giorno estivo – prosegue Elisabetta – quando si è trattato di atterrare a Pisa ci venne negata l’autorizzazione e per proseguire fino a Roma non c’era abbastanza carburante. Mio zio era nervosissimo, con un tremore da stress alla gamba che non si è mai arrestato fino all’atterraggio sulla pista di Cinquale, vicino a Forte dei Marmi».
Che uomo era?
«Aveva un carattere molto deciso e irremovibile, altrimenti non sarebbe mai riuscito a creare le condizioni per la rinascita economica nel dopo guerra: l’Italia non sarebbe mai entrata nel G7 senza l’energia procurata da Mattei».
In privato era affabile?
«Sapeva essere molto dolce. Aveva sposato una signora austriaca, una ballerina di avanspettacolo che aveva conosciuto a Vienna. Lei era molto debole ed è sempre stata impaurita dall’idea di poterlo perdere e di rimanere indigente, come forse lo era stata nel suo passato. Una donna, insomma, un po’ particolare. Che poi, peraltro, si risposò con il generale Casero, uno degli ufficiali che svolsero le indagini sul caso della morte di mio zio e che anni dopo risultò essere iscritto alla P2».
Non ha mai avuto figli.
«Credo sia stato un grande dolore non averne».
In famiglia quanto riuscivate a vederlo?
«Passavamo alcune settimane di vacanza nel luogo che lui adorava: la casa in Alto Adige. Adorava la caccia e, soprattutto, la pesca, così aveva comprato un cottage sul lago alpino di Anterselva. Lui arrivava il fine settimana in aereo, atterrando a Dobbiaco. E poi celebravamo insieme il Natale nella sua casa di Milano, in via Fatebenefratelli. Un anno ricordo che non è mai arrivato perché era in Cina per lavoro».
Era legato alle Marche, sua terra di origine?
«Aveva un fortissimo legame a un certo punto aveva ricomprato per i genitori una grande casa a Matelica. Le Marche rappresentavano la sua infanzia e i luoghi lasciati all’inizio degli anni trenta per trasferirsi a Milano».
Era stato parlamentare per la Dc, aveva fede?
«Io ricordo che aveva un po’ la mania per le chiese, era certamente molto religioso e molto credente. Non a caso, fu lui a volere la costruzione della chiesa di Santa Barbara a Metanopoli, il quartiere di San Donato Milanese progettato per ospitare gli uffici e i dipendenti di Eni».
Quando l’ha visto l’ultima volta?
«Nell’estate del 1962, ogni anno regalava ai nipoti una vacanza studio in Inghilterra. Nel mese di agosto ero in un college e un pomeriggio in televisione c’era una trasmissione della Bbc sul petrolio: vidi apparire prima mio padre e poi mio zio. È l’ultima volta che l’ho visto».
Cosa ricorda dell’incidente del 27 ottobre del 1962?
«Ho vissuto la tragedia di quei giorni perché all’epoca avevo quindici anni. È stato pesante, ha impattato molto sulla vita della nostra famiglia, in particolare per mio padre è stato un trauma personale perché era davvero legatissimo al fratello maggiore. Non le nascondo che in famiglia non c’è mai stato il minimo dubbio che si sia trattato di un attentato».
Quando viene riaperta l’inchiesta negli anni novanta la nuova indagine, condotta dal giudice Vincenzo Calia, termina nel 2003 ancora una volta con un’archiviazione.
«Sì, fin lì tutto giusto. Poi però la vicenda prosegue e va avanti perché nel 2006 a Palermo si apre il famoso maxiprocesso contro Totò Riina, con il filone che indaga sulla scomparsa nel 1970 del giornalista Mauro De Mauro. Secondo i giudici una delle cause più probabili del sequestro di De Mauro e della sua scomparsa è legato al fatto che stava raccogliendo informazioni per conto del regista Francesco Rosi, autore del film dedicato agli ultimi giorni di vita di Mattei».
A Palermo cosa hanno stabilito i giudici?
«Il 10 giugno 2011 la corte d’assise di Palermo ha giudicato acclarata la natura dolosa delle cause che determinarono la caduta dell’aereo su cui volava mio zio. In seguito la corte d’appello ha confermato la sentenza e nel giugno del 2016 anche in cassazione si è giunti alla medesima conclusione, quindi è una sentenza definitiva, che difende in primis la figura di un personaggio come Enrico Mattei, e poi un magistrato come Calia che ha lavorato in modo encomiabile e con grande coscienza. E non ultimo preserva la memoria del comandante Bertuzzi, un pilota eroe di guerra con 11mila ore di volo a suo carico».
Quella sera il bollettino meteo segnalava una forte perturbazione.
«Ho potuto ascoltare l’ultima conversazione tra la torre di controllo e il comandante Bertuzzi, che comunica “sono a due minuti” (dall’atterraggio, ndr) e dice di aver raggiunto i 2.000 piedi di altitudine. Ho sentito bene quell’audio: Bertuzzi aveva una voce calmissima, non aveva il tono di qualcuno che è in emergenza o che opera in assenza di visibilità a causa del maltempo. C’era un temporale, ma non c’è stato alcun volo dirottato o che abbia avuto problemi».
Tra gli argomenti in favore dell’incidente il fatto che sabotare un aereo, molto sorvegliato, con una piccola carica esplosiva sarebbe stato troppo macchinoso e avrebbe richiesto tempi lunghi.
«Non è così. I dati dimostrano con prove tecnico scientifiche che sono state trovate tracce di esplosione sui metalli, in particolare l’orologio e la fede di Mattei. Per avere questa evidenza si è dovuto attendere le indagini degli anni 2000 effettuate con i microscopi elettronici. Strumenti in grado di studiare quali alterazioni sono avvenute, misurando le modificazioni e gli slittamenti dei metalli che hanno subito un’esplosione».
Suo zio temeva un attentato?
«Aveva paura ogni volta che metteva piede in aereo, perché se lo sentiva. Però tengo a dire che la sua è stata una vicenda umana simile, per esempio, a quella di Giovanni Falcone: uomini cioé consapevoli del fatto che ogni giorno poteva anche essere l’ultimo della loro vita, ma nonostante questo hanno sempre deciso di andare avanti. Senza Mattei l’Italia di oggi sarebbe diversa. Per questo penso che ridare giustizia alla sua morte sia importante, perché la morte in un attentato serve a rivalutarne la vita e le opere. Se Falcone fosse morto di malattia o di vecchiaia non rappresenterebbe il simbolo che è tuttora».
Lei resta dell’idea che ci fu un complotto?
«Il complotto ci fu eccome, basti pensare a quanto frettolosamente furono chiuse le indagini all’indomani dell’incidente. L’inchiesta doveva essere chiusa rapidamente, altro che complotto, erano tutti coinvolti: dall’Eni, alle istituzioni, alle sette sorelle, alla Cia».