Il Messaggero, 26 ottobre 2025
Intervista ad Alessandro Haber
È un pezzo unico, Alessandro Haber. Uno di quegli attori dal talento e dalla presenza scenica travolgente. Due giorni fa è arrivato al giornale con il bastone nel 2022 dopo un’operazione non riuscita per lo schiacciamento di due vertebre, ha passato quasi un anno in sedia a rotelle e subito ha travolto tutto e tutti per simpatia e brutale – e spettacolare – sincerità. Con quella faccia (anche) da schiaffi può fare e dire quello che vuole. Il 7 novembre dal Teatro Comunale di Limbiate (Monza e Brianza) parte il suo nuovo allestimento, Volevo essere Marlon Brando, adattamento dell’autobiografia Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini) pubblicata nel 2021, novanta minuti in cui Haber si racconta senza filtri a modo suo: a valanga (sarà a Roma dal 18 al 23 novembre al Teatro Sala Umberto). Al suo fianco Francesco Godina, Brunella Platania e Giovanni Schiavo.
Non sarà mica la solita operazione autocelebrativa?
«Per carità, quella roba non mi interessa. Mi prendo molto in giro, anzi, mi metto a nudo in maniera spietata. Se il libro è divertente, cattivo, commovente e cinico, lo spettacolo lo è anche di più. In pratica, prima di farmi morire Dio mi dà sette giorni di vita per raccontargli quello che ho fatto nella mia vita e decidere che fine farmi fare».
Gigi Baggini, il tragico personaggio interpretato da Ugo Tognazzi nel film “Io la conoscevo bene”, diretto nel 1965 da Antonio Pietrangeli, con Stefania Sandrelli ed Enrico Maria Salerno, che fine ha fatto?
«Non c’è nel titolo perché c’è già il nome di Marlon Brando, ma è ovunque nel copione, e non solo. Quell’attore fallito disperatamente pronto a qualsiasi cosa per lavorare, mi ha terrorizzato tutta la vita. Pensavo di diventare così anch’io, e ho cercato di riscattarlo in ogni modo. Io sto da sempre dalla parte dei perdenti, non dei vincenti. Chi ce la fa è noioso».
Lei ce l’ha fatta, però: tanti film, spettacoli teatrali, decine di riconoscimenti come David di Donatello, Nastri d’argento, Premio Gassman...
«Sì, vabbè. Ho vissuto: ho preso, ho dato e spesso è andata bene. Ho avuto fortuna quella ci vuole sempre e credo di avere talento. Il complimento più bello che mi fanno è questo: “Grazie per le emozioni che ci ha regalato”. Per me è una medaglia, perché non ho mai recitato, ho sempre tirato fuori dal mio vissuto. Il verbo “recitare”, poi, mi fa schifo, meglio “giocare”, come dicono gli inglesi. È ciò che faccio da quando sono bambino».
Fino a nove anni ha vissuto a Tel Aviv, visto che suo padre era un ebreo rumeno: che ricordi ha di quel periodo, soprattutto se pensa agli ultimi due anni?
«Sono molto contento di aver vissuto lì quella parte della mia vita perché ricordo che si stava tutti insieme senza problemi. Si conviveva senza rotture di coglioni. Ebrei, musulmani e cristiani. Quello che è successo negli ultimi due anni è orribile. Mi piacerebbe che il Papa facesse qualcosa di forte e concreto contro le guerre. Uno sciopero della fame, per esempio».
Cosa racconta in scena?
«Di tutto. Cose belle, brutte e cazzate megagalattiche. Per esempio, di quella volta che nel 1980 feci l’amore in aereo con una brasiliana meravigliosa mentre andavo in Argentina per fare un film. Era seduta vicino a me, mi misi a fare lo splendido e quando spensero le luci mi feci coraggio».
Quando arrivò a Buenos Aires, però, giorni dopo lo perse con una ragazza del posto, vero?
«Sì. Lo racconto perché è il più grande rimorso della mia vita: una sera seduto con amici a un tavolino vidi una ragazza bellissima seduta vicino a me. Mi spostai di un metro, mi avvicinai, iniziammo a parlare e scattò subito qualcosa di magico. Lei era con un’amica, doveva andar via e ci demmo appuntamento allo stesso posto per il giorno dopo. La salutai e mi girai per tornare a parlare con i miei amici. L’indomani, con la luce, la vidi subito da lontano. Avvicinandosi, però, capii subito che c’era qualcosa di strano. Camminava e ondeggiava. Si muoveva in maniera strana. Pensavo ballasse, non ballava: era zoppa. Mi si gelò il sangue. Mi inventai una scusa per andar via subito: il regista, le prove, i costumi. Lei mi disse di non preoccuparmi, ma capì al volo tutto. Che cosa brutta...».
È vero che disse di no a Vittorio De Sica per “Il giardino dei Finzi Contini”?
«Se ci penso ancora oggi mi viene da piangere. Tramite il mio agente venni a sapere che De Sica stava allestendo il film dal libro di Giorgio Bassani. Mi misi subito a leggerlo, tutti mi dicevano che sarei stato perfetto come protagonista e quando mi chiamò l’assistente del maestro per il provino su parte, pensavo fosse fatta. Due giorni dopo lo feci, De Sica al termine mi avvicinò con un sorriso e serio mi disse: “Sei davvero bravo. Per il protagonista, Giorgio, pensavo a Lino Capolicchio, lui è più chiaro di carnagione e ha gli occhi azzurri. Per te pensavo al ruolo di Bruno Lattes. Che ne pensi?”.
La sua risposta?
«Gli dissi di no. “O il protagonista o niente”, io che nella mia carriera per il gusto di recitare ho fatto anche particine. Io a un genio come Vittorio De Sica risposi che non avrei fatto un ruolo molto importante in uno dei film più belli della storia del cinema, che poi vinse l’Oscar, l’Orso d’oro a Berlino, David di Donatello e premi in tutto il mondo. Ti rendi conto? Poi però ho recitato con Christian, bravissimo (in Grandi magazzini nel 1986, Uomini uomini uomini nel 1995, Simpatici e antipatici nel 1998, nda), perché la vita è fatta così e non ci si può fare niente».
Lei voleva fare l’attore fin da bambino; cosa cercava?
«Il mio modo per riuscire a esprimermi entrando nelle vite, e nella testa e nei cuori, degli altri. Chiamarlo lavoro è riduttivo, è tutta la mia vita. È ciò che mi ha salvato perché come uomo non mi sono mai preso sul serio, ma ho sempre preso molto sul serio quello che facevo sul palco. Sceso da lì mi sento vedovo, perso. In passato, ho avuto un periodo durato qualche anno di uso pazzo di cocaina. Per rispetto del pubblico, però, non l’ho mai presa prima e durante uno spettacolo».
Tranne una volta, lo racconta lei stesso.
«È vero. Prima di andare in scena al Piccolo di Milano, nel 1989, con lo spettacolo L’intervista di Natalia Ginzburg, venne a trovarmi un amico che quando andò via prima dello spettacolo mi lasciò un po’ di cocaina. Mancavano quasi due ore allo spettacolo e pensai che ci sarebbe stato tutto il tempo per recuperare. Quando entrai in scena non riuscii a dire una parola: mi salvai con una bottiglia d’acqua. Nel secondo atto l’effetto svanì. Dopo un po’ smisi con quello schifo».
Un suo vecchio agente in passato disse che uno bravo come lei avrebbe potuto fare molto di più se avesse avuto un carattere meno assillante: è vero?
«Da giovano facevo appostamenti sotto casa di registi, produttori, li pedinavo, li assillavo in ogni modo... Volevo che mi vedessero e capissero chi ero: “Volete un cieco? Un folle? Un impiegato delle poste? Faccio tutto”. Alla fine ho dato fastidio a tutti, ma il talento mi ha salvato. Prima o poi hanno capito che c’ero. Pupi Avati per anni mi ha detto che ero bravo, ma non mi faceva lavorare. Un giorno di pioggia a Roma, disoccupato da tempo, andai da lui e riuscii miracolosamente a trovare parcheggio davanti al suo studio. Entrai e urlando gli dissi: “Dici che sono bravo, dimostramelo! Fammi lavorare!"».
E lui?
«Chiamò il fratello Antonio, il suo braccio destro, e mi diede un ruolo in Regalo di Natale».
Nel suo libro racconta di mille incontri con amici colleghi, molti dei quali non ci sono più: chi le manca maggiormente?
«Gli amatissimi Monica Scattini, Ennio Fantastichini, Flavio Bucci, Tonino Zangardi...».
Sua figlia Celeste ha 21 anni le farebbe piacere se seguisse le sue orme?
«Non lo so. Se avesse talento e le piacesse recitare, sarebbe bello, ma deve fare quello che vuole».
Fra cent’anni cosa le piacerebbe che si dicesse di lei?
«La verità? Quando non ci sarò più non me ne frega niente di lasciare qualcosa ai posteri. La vita è qui. E questa mi voglio godere. Ben sapendo che sono in lista d’attesa. L’età avanza e sono appeso a un filo. Però finché ce n’è, si gioca. Bello, no?».