il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2025
Intervista a Renato Zero
Sì, la bieta proletaria (“E basta con questa cicoria!”).
Sì, i marciapiedi (“Sono stati fondamentali”).
Sì, il nuovo album, L’OraZero, i diciannove brani inediti. Il prossimo tour.
Sì, Loredana Bertè (“L’emozione di rivederla è andata oltre” – per il resto della risposta, arrivate alla fine).
Sì Vasco Rossi, Jovanotti e Piero Ciampi (“Una sera, quel viaggio di ritorno, insieme…”).
Sì, la memoria. Formidabile.
Sì la politica, la piazza, Meloni e la sera della sua vittoria alle elezioni.
Eppure è il “ma” a svelare tutto.
Siamo a pranzo con Renato Zero, non lontani da San Pietro, e lui è una sorta di Papa emerito, senza risultare blasfemi: ogni tot si avvicina qualcuno a salutarlo, non sono solo fan, non chiedono autografi o selfie, né Zero né Fiacchini li amano, ma rappresentano pezzi di storia, stratificazioni temporali della città; momenti, attimi, o percorsi condivisi tra loro e l’emerito.
In qualche modo lui li conosce tutti, alcuni per nome, altri per richiami, magari un parente sorcino, fasi sorcine, attitudini sorcine, esperienze sorcine.
E il pranzo diventa un percorso condiviso.
Nella sala accanto c’è Vittorio Cecchi Gori.
È ’na sagoma; tanti anni fa ero da suo padre per un appuntamento: mi voleva proporre un film; a un certo punto entra Vittorio e immediatamente Mario cambia tono: “Che te servono, i soldi?”. “No, niente”. “Sei sicuro?”. “Niente…”; passano pochi secondi di silenzio e Vittorio cambia approccio: “Certo, se avessi…” e spara una cifra.
Altra “cifra”: con L’OraZero siamo al 34esimo album di inediti.
Li ha contati?
I suoi colleghi come la guardano?
Non so loro, però io mi osservo molto.
E… ?
Delle volte mi sbatterei al muro: non mi sono mai portato al mare, su una spiaggia, quattro mesi di vacanza come accadeva un tempo tra una seconda e una terza media: anche affettivamente, quando mi si chiede degli affetti, delle introspezioni sentimentali, mi trovo impreparato.
Impreparato, lei?
L’amore con il pubblico è sempre di fronte a me, immutato, ricco di sfumature: sono storie nelle quali loro si riconoscono in quello che canto perché mi sono esattamente ispirato a loro; c’è un travaso della consapevolezza di scambiarsi i trionfi, qualche fallimento, mancati riconoscimenti.
Nei suoi testi dà del tu al pubblico.
È quasi automatico… (Compare un signore sulla sessantina e il “ciao” è tipico romano, il dialogo è surreale, giocato sui paradossi: “Rena’, te possino acciacca’!”.
“Amore, come stai?”.
“Ho visto le date del tour, me tocca portacce mi’ moje, me tocca falla contenta…”.
“E finalmente, ce porti sempre l’amante… “.
“Ma quale amante, mica so’ matto… le corna a mi’ moglie non le metto! Ma perché me devo complica’ la vita?”.
“No, stamo boni”).
Correggiamo: il tu è con il pubblico. Chi altro come lei?
Credo Vasco Rossi e Jovanotti: li conosco e ci lega questa sorta di similitudine, di mentalità; poi ho una memoria micidiale, non mi ricordo né i nomi né i luoghi, ma i visi li pizzico tutti.
Se non ricorda il nome ricorre al generico “amore”.
Come la barzelletta di Gigi (Proietti, ndr) quando un Tizio è a casa con un amico e chiama la moglie sempre “amore”: “Amore tutto bene? Amore puoi fare il caffè? Amore hai visto il giornale?”. E l’amico: “Dopo tutti questi anni ancora ‘amore’, che bello!”. “No, è che nun me ricordo come se chiama…”.
Proietti manca.
A me tantissimo, eravamo gemelli, vivevamo un affiatamento quotidiano che non prevedeva crisi.
Lo ha coinvolto in Zerovskij, nel ruolo di un senzatetto.
Nella scena della rotaia, quando si sdraia sui binari, se ne uscì con “aoh, oggi che me volevo suicida’, c’è lo sciopero dei treni…”; (ride, a lungo). Quando a Gigi diedero delle prime serate su Rai1, non potei andare da lui ospite, allora gli mandai Che sarà, dedicata a lui, con le parole cambiate nel testo. Non sapeva della sorpresa. Appena se ne accorse, vidi le sue lacrime. E quelle lacrime mi hanno bagnato l’anima perché ho capito quanto fossimo importanti l’uno per l’altro.
Il 2 novembre è l’anniversario della nascita e della morte di Proietti.
Con la sua dipartita un pezzo del mio entusiasmo se n’è andato; (cambia tono) e pensare che all’inizio gli stavo sulle palle.
Come mai?
Negli anni 70, a Roma, c’era una Tenda dove si esibivano Carmelo Bene, Vittorio Gassman e Gigi Proietti. Con loro tre gli incassi erano garantiti ma quando sono arrivato ho stravolto tutto: la tenda trasudava per il numero di spettatori. Così un giorno Gigi con il suo tono da finto duro mi disse: “Quanto hai deciso de trattenette?”. Della serie: “Quand’è che te ne vai?”.
(Si affaccia un altro sorcino al tavolo. E Renato: “Lui lo conosco da quando era piccolo, piccolo”.
E lui: “Te vengo a vede’ da quando ho dodici anni”.
E tra i due inizia un dialogo di nomi, ricordi, parametri, esperienze. Tra un tal Armandone – “te lo ricordi? – o Bartoletto con il fratello piccolo.
“Ciao Rena’, te porto sempre nel mio cuore”.
“Anche io”).
Effetto pellegrinaggio.
In quegli anni da una parte prendevo gli schiaffi, dall’altra già arrivavano queste carezze.
Gli anni di quando non era compreso da tutti, neanche da molti suoi colleghi.
Una volta vado a Punta Ala con Piero Ciampi e c’era un pubblico stucchevole, con le pellicce finte; Piero inizia a cantare e una stronza inizia a ridere e a baciare il compagno accanto. Piero si ferma: “Che cazzo ridi sempre, io sono un artista. E mi devi ascoltare perché non verrò più, soprattutto se ci sarà in prima fila una come te”. La donna imperterrita. Allora Piero smette, si alza e se ne va.
Alla Ciampi.
Siamo tornati in macchina, io dietro schiacciato dal suo pianoforte; (pausa) in quegli anni Ennio Melis (direttore della Rca, ndr) lo ha aiutato tanto sia moralmente sia economicamente, ma vinse la sua fragilità: se sei troppo sensibile, gli eventi ti travolgono.
Lei ha attraversato la vita…
All’inizio ho forse anticipato le critiche, la violenza: mi porgevo come bersaglio, sapendo che l’avrei spuntata: malgrado la mia terza media, grazie al marciapiede ho tre lauree.
Fine anni 60, prendeva l’autobus con una gallina sotto al braccio.
(S’illumina) La mia Tosca! Vengo da una famiglia di pastori e contadini, e vanno bene i cani e i gatti, ma la gallina ci dava le uova e alla fine regalava il brodo; (ride) zia Rosa vendeva le pelli dei conigli: veniva sempre un signore ad acquistarle, dieci lire ognuna. Un giorno arriva il signore, zia non c’era, allora prendo quindici pelli: “Posso pagare alla signora?”. “No, zia ha detto che ci penso io”.
Bel bottino.
Con quei soldi sono andato allo spaccio e li ho spesi tutti in caramelle e cioccolata. Avevo dodici anni.
Tra i suoi parenti c’è anche uno zio prete.
Purtroppo non ha vissuto la mia fase ascendente, ma quando ero bambino servivo messa con lui e preparavo le ostie. Adoravo prepararle, ci andavo pazzo: quello che avanzava lo mangiavo, non l’ostia perché altrimenti sarebbe stato sacrilego.
La sua memoria è realmente prodigiosa.
Il prodigio è altro: la memoria mi esclude le zone che non voglio più ricordare. Ed è una risorsa.
Torniamo ai testi: oggi si torna a parlare delle responsabilità di un artista.
È sempre stato così, basti pensare a Charlie Chaplin e al suo coraggio; ma in Italia c’erano artisti come Valeria Moriconi, Aroldo Tieri o Giuliana Lojodice: tutti alleati di medici o fisioterapisti, perché quando li andavi a vedere ti passava tutto.
Su cosa non transige?
Sulla piazza: vederla spopolata mi rammarica; vorrei vedere Piazza del Popolo gremita di donne, solo donne, mute per dire “basta al femminicidio”; (pausa) penso a quando ho cantato quella canzone sui politici al Circo Massimo…
Il giorno dopo il suo incontro casuale e rumoroso con la Meloni.
Dentro un albergo dei Parioli, mentre festeggiava la vittoria alle Politiche; ma una della Garbatella (storico quartiere popolare, ndr), per risultare coerente con il suo mandato, non doveva stare ai Parioli; qualcuno non gradì la mia frase “votate la merda che siete”, eppure era riferito proprio al contesto, al fatto che non era il loro luogo, in mezzo a russi e americani, mentre loro fino alle cinque hanno fatto ballare siliconi e via dicendo.
Bell’immagine.
Il giorno dopo quell’incontro, al Circo Massimo ho cantato con il cerotto sulla bocca Vergognatevi voi.
Quante volte è stato frainteso?
Una certa mia esternazione ha aperto le porte a una rivalutazione del sesso, delle scelte estetiche, anche intellettuali. Accendere quella miccia è sempre positivo, puoi trovare anche degli interlocutori che non amano mostrarsi, che preferiscono l’anonimato.
Invece…
La mia ambiguità, ammesso che ci fosse, l’ho messa alla mercé di tutti; il coraggio dà fastidio a chi manca e io davo fastidio a tanti che non ce l’avevano o che ce l’avevano piccolo così (ride, a lungo…).
Bene.
Intendevo il cervello, eh.
C’è stato il momento in cui ha pagato lo scotto del suo sforzo?
Nel 1982 la chiusura del Tendone di Zerolandia da parte del dottor Bettiol (allora pretore, ndr).
Tempo fa ha dichiarato che sta pensando di riaprirlo…
Ci stiamo lavorando…
(Arriva un’altra “sorcina”. Si siede, da sola, a un tavolo, non troppo vicino.
“Maestro come stai?”.
“Bene Ni’, e i tuoi figli?”.
E anche qui inizia uno scambio di ricordi e rassicurazioni rispetto alla salute di varie persone. Sempre tutti seduti a tavola. La tavola è sacra).
Lorella Cuccarini racconta…
(La domanda non termina…) Citofonava a casa dei miei genitori insieme a Gabriella Labate. E mia madre: “Renato non c’è, ma vi faccio il tè”. Qualche volta tornavo e le trovavo tutte a tavola; (pausa) questo attaccamento, questo affetto mi poneva questioni.
Quali?
A volte penso: ma che ho combinato?
Che ha combinato?
Tante, rappresentare tutta questa umanità è un premio.
La spaventa?
Prima di premere qualcosa conto fino a mille.
Pochi anni fa ha parlato della lotta tra Renato e Zero. Oggi no.
Perché non ha vinto nessuno e hanno vinto tutti e due.
Sono in pace.
Ognuno si tenga i suoi difetti e i suoi pregi. Così funziona. Perché lo sdoppiamento è anche una forma di arte, un tavolo di elaborazioni psicoanalitiche.
Allo specchio.
Mi pongo in continuazione interrogativi ed è fondamentale.
Pochi mesi fa, e dopo tanti anni, ha rivisto Loredana Bertè.
Ero agitato non solo per Loredana, ma anche per Mimì: in quell’abbraccio dovevamo essere tutti e tre (E qui per la prima volta dall’inizio abbassa la voce, gli occhi. Li rialza con lo sguardo di chi chiede di non andare oltre. Poi arriva il cameriere. Il conto in mano. Zero gli dà la carta di credito. Non funziona. Il cameriere inizia a pulirla. E Zero: “Oh, nun la strofina’ troppo che poi gode…”).