La Stampa, 25 ottobre 2025
"Mio padre, Craxi e Pazienza Volevo vendicare mamma mi diedero la pistola, dissi no"
C’è poco da stupirsi se da ragazzo Jacopo Fo voleva fare la rivoluzione: «Sono diventato comunista a nove anni, quando una sera mia madre smise di raccontarmi di Ulisse e del Ciclope e cominciò a spiegarmi cos’erano i disoccupati. Di lì a poco vendevo l’Unità in spiaggia a Cesenatico (dove la famiglia aveva una casa, ndr)», racconta.
Figlio di Franca Rame e Dario Fo, fin da piccolo ha respirato teatro e politica, poi ha solcato i mari agitati del movimento studentesco milanese, fino a sfiorare la clandestinità: nel 1973 un gruppo di fascisti aveva rapito e violentato sua madre, così certi compagni di “Rosso”, la formazione extraparlamentare in cui militava, dopo aver individuato i presunti colpevoli gli proposero di regolare i conti. Seguì un periodo di addestramento, ma al momento di armarsi sul serio, Jacopo fece dietrofront: «Quando mi misero in mano una pistola per andare a sparare alle gambe a un preside fascista, li ho mandati aff...».
Dal 1982 è anima della Libera università di Alcatraz, in Umbria, fra corsi di teatro, fumetto, yoga demenziale e iniziative rivolte alle donne vittime di violenza. Ma prima ancora è stato fra i fondatori de Il Male, il foglio satirico che ha scandalizzato e divertito l’Italia fra il ’78 e l’82.
Quando è nata la sua passione per la politica?
«Da bambino, grazie ai racconti di mia madre. Rimasi sconvolto dalle foto sulla guerra in Vietnam e il mio primo sciopero l’ho fatto alla scuola media, per il colpo di Stato in Grecia del 1967. Mi sentivo un bimbo anormale, ma in realtà giudicavo gli altri dei coglioni perché non si interessavano ai problemi veri. Sono cresciuto col mito della Resistenza, mia nonna paterna ricuciva i gappisti e mio nonno fece scappare molti ebrei».
Con i suoi genitori c’è mai stato conflitto?
«Non direi, dall’età di 16 anni ho vissuto da solo per gran parte dell’anno, i miei erano in tournée per quattro, cinque mesi. Il motto di famiglia poi era di darsi da fare seguendo la propria passione, secondo un concetto di libertà. Mi insegnavano la passione senza darmi regole».
Erano genitori ingombranti?
«No, il problema era che eravamo dei perseguitati politici: a sette anni ero scortato dai carabinieri perché, dopo uno sketch dei miei a Canzonissima sulla mafia in Sicilia, ci avevano mandato una bara bianca e una lettera di minacce scritta col sangue. C’erano aggressioni fuori dal teatro, i miei erano anche finiti nella lista del golpe Borghese, tentarono persino di bruciare casa nostra a Cernobbio. In una situazione del genere la famiglia è molto unita».
Poi nel 1973 rapirono e violentarono Franca Rame.
«Ero fuori dalla grazia di Dio, passai un mese a casa per starle vicino. Qualcuno mi disse che aveva informazioni su quelli che l’avevano rapita e io, che volevo vendicarla, decisi di arruolarmi nella struttura militare ex Potere Operaio che faceva riferimento a Toni Negri. Dopo l’iter di formazione, l’organizzazione come battesimo del fuoco ci chiese di sparare a un preside fascista. A quel punto li ho mollati. Bisognerebbe fare una controstoria del militarismo di sinistra, che era veramente un delirio, anche perché, davanti all’orrore attuale, ci possono essere dei ragazzi che si rovinano la vita come allora».
A movimento quasi esaurito, nel 1978, ha contribuito alla nascita del Male: come andò?
«Il giornale era nato dai Quaderni del Sale diretto da Pino Zac, che chiuse quasi subito. All’inizio stavamo fallendo e ho avuto l’idea dei falsi: uscivamo in edicola con la riproduzione esatta delle prime pagine dei giornali veri (fra i titoli celebri: “Ugo Tognazzi capo delle Brigate rosse”, ndr). Erano gli anni di piombo e noi prendevamo tutti per i fondelli, dalla Dc al Pci alla Chiesa, dalle Br all’antiterrorismo».
Eravate dei provocatori veri.
«Una volta qualcuno si accorse che Vincino, con la pelata, era uguale a Craxi: abbiamo chiamato truccatori di Cinecittà, ci siamo messi giacca e cravatta e siamo andati a un convegno del Psi a Roma. Scena surreale: da sinistra entrava Craxi, dall’altra Vincino con noi. Si sono trovati faccia a faccia e si sono dati la mano, il vero Craxi non è riuscito a evitarlo. Il problema fu uscire dal palasport, perché i socialisti volevano picchiarci...».
Come nacque la Libera università di Alcatraz?
«Nel 1979 avevo acquistato un casolare in rovina fra Gubbio e Perugia e sono andato a viverci con la mia ragazza, che mi lasciò. Dopo mesi di solitudine e pianti, con l’acqua che pioveva dal tetto, vedo arrivare mio padre: quando mi ha chiesto la cassetta degli attrezzi e l’ho visto armeggiare con un martello per aggiustare la porta di casa, l’immagine mi ha terrorizzato, perché era veramente preoccupato».
E poi?
«Nell’estate dell’82 Alcatraz aprì come centro culturale: Dacia Maraini e Stefano Benni facevano corsi di scrittura creativa, c’erano corsi di teatro, fumetto, yoga, kendo. Fra gli insegnanti Andrea Pazienza, un ragazzo straordinario, dal fisico di un bronzo di Riace. Ricordo di averlo trattato male ai tempi della rivista Avaj, nell’88: gli dissi che era ignobile che qualcuno con la sua fortuna e il suo talento si ammazzasse di eroina. Di lì a poco morì di overdose».
Si sente ancora comunista?
«Sono un comunista pacifista, ma comunismo oggi non è fare la rivoluzione coi fucili: se la gente lo capisse, basterebbe smettere di comprare certi prodotti per ottenere risultati, il boicottaggio dei prodotti israeliani ha provocato un disastro economico. La flotilla è l’esempio di persone pacifiche che hanno vinto in modo pacifico attirando l’attenzione. La campagna pacifista che porto avanti passa per un cambiamento di cultura: anche i nemici vanno difesi, per questo serve il vero racconto degli Anni 70. Toni Negri allora ha rovinato la vita a una quantità mostruosa di ragazzi».
Lei si è sposato tre volte, si definirebbe un irrequieto?
«Ero molto irrequieto da ragazzo, ma poi mi sono reso conto che era veramente faticoso. Se vuoi gustare veramente la vita non devi perdere tempo, non si può essere sempre a caccia… Mio figlio Jaele fa l’attore e ha appena finito di girare un film, mentre mia figlia Mattea dirige Alcatraz, dove onoriamo la memoria di mia madre: con il progetto Kore ci occupiamo di protezione e reinserimento delle donne vittime di violenza. La struttura è gestita da loro, ce ne sono dieci con i loro figli». —