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 2025  ottobre 26 Domenica calendario

«Mio papà era una rockstar»: il racconto del figlio di Macario, il genio torinese che fece ridere l’Italia con Totò e Wanda Osiris

«Mio papà in tre parole? Irripetibile, irripetibile e irripetibile». Il padre in questione è Erminio Macario, torinese classe 1902, autentico gigante del teatro, del cinema e della televisione italiana per mezzo secolo, dagli anni Venti ai Settanta. La voce invece è quella di suo figlio Alberto, che custodisce l’eredità umana e artistica di un papà davvero fuori dal comune. «È sempre stato il primo in tutto. Ha inventato il cinema comico italiano. Era una specie di rockstar», dice il classe 1943, con la vitalità di un ragazzo e la memoria di un elefante. «Girare con lui era qualcosa di inimmaginabile. Aveva l’autista con la pistola caricata a salve, per fuggire dagli assalti dei fan. Una volta fuori da una pescheria di Santa Margherita Ligure si fermò un pullman di turisti. Uno di loro lo vide e urlò: “Macariooo!”. Uscirono tutti di corsa. Papà mi consegnò il nasello appena comprato e mi spinse in auto. L’autista mise in moto ma, prima di sgommare via, una sua ammiratrice fece in tempo ad aprirsi la camicetta e a mostrare il seno nudo contro il finestrino. “Non guardare”, mi disse papà abbassandomi la testa per proteggermi: sento ancora oggi l’odore di quel nasello».
Qual è il suo primo ricordo di papà?
«Avevo quattro anni, eravamo nella villa di famiglia a Ceres. Lui apre Il Corriere dei Piccoli per mostrarmi il fumetto di Macarietto e mi dice: “Questo è papà”. La gente mi salutava così: “Ciao Macarietto”. E io arrabbiatissimo rispondevo: “No, io sono Alberto. Macarietto è papà”. Papà faceva teatro anche a casa. Era molto serio, perché aveva responsabilità enormi facendo il capocomico, il regista e l’impresario. Era il domatore di un caravanserraglio. Negli anni Cinquanta allestiva riviste colossali, di portata hollywoodiana. Ha scoperto Sandra Mondaini, Marisa Del Frate, Juliet Prowse, poi diventata fidanzata di Frank Sinatra. Nel 1965 proprio Frank Sinatra mandò un emissario al Sistina di Roma, dove papà faceva Febbre Azzurra. Gli offrì Hollywood, Broadway, Las Vegas. Avevo 16 anni, disegnavo fumetti per Mondadori, mi vedevo già alla Disney. Dipinsi una valigia a stelle e strisce. Ma papà disse: “No grazie, l’America l’ho già trovata in Italia”».
Lei e suo fratello Mauro siete nati dal secondo matrimonio, con Giulia Dardanelli.
«Lo scoprii da una professoressa, che mi chiese: “Sei figlio della prima o della seconda moglie?”. Sconvolti ci accertammo di essere gli unici figli di Macario. Papà da giovanissimo, nel 1925, entrò nella compagnia di Isa Bluette. Due anni dopo sposò Maria Giuliano, coreografa del Regio che lavorò con lui nell’allestimento di molti spettacoli. Ad aiutarlo ad annullare il matrimonio alla Sacra Rota fu Padre Pio. Mamma aveva 17 anni quando papà la vide per la prima volta, all’uscita di scuola. Lei salì sul tram, lui la seguì in macchina. Lei aveva una paura tremenda di quel signore che la fermò e le disse: “Signorina, permette, sono Macario”. Mamma finse di non sapere chi fosse Macario, nonostante i muri di Torino fossero invasi dai suoi manifesti: era appena cominciato il binomio con Wanda Osiris».
Quando suo padre morì, Enzo Biagi scrisse che aveva lasciato duemila vedove.
«Ha avuto tante avventure, ma il suo cuore era solo per mamma.
Diceva: “Tua madre è una santa donna, anche per aver sopportato 32 traslochi”. Oltre a Santa, abbiamo abitato a Roma, ai Parioli, in una casa trovata da Totò. A Torino stavamo a Palazzo Cavour, in un appartamento di 500 mq dove ci incrociavamo ogni tanto. Lui era un gran girovago. Anche Gala Dalì una volta mi chiese di papà: la conobbi all’Accademia di Brera. Poi andai anche a portare i miei lavori artistici a Salvador Dalì a Portlligat, in Spagna».
Com’era Macario lontano dal set?
«Serio, severo, austero. E intransigente. Il contrario di quello che era sul palcoscenico. Non è stato né un marito né un padre facile. Poi, con l’età, si è ammorbidito. Da piccolo riuscivo a vederlo raramente. Era una voce al telefono. Ma era anche un uomo assolutamente positivo, con una grande fiducia in se stesso. Mi ha insegnato l’onestà e la generosità: mamma era allibita di quanto denaro distribuisse ai bisognosi».
Un esempio?
«A fine anni Settanta, dopo uno spettacolo all’Odeon di Milano, al ristorante scorge un’anziana che lo fissa con lo sguardo illuminato. Papà va da lei, le dà 100 mila lire e le dice di chiamare un taxi per andare a casa senza farseli rubare. Poi mi disse che era stata una sua ballerina negli anni Trenta».
Portava a casa qualcosa del Macario attore?
«Non staccava mai, era uno stacanovista... (ride; ndr). Non permetteva a nessuno di ribattere le sue scelte né di parlare di lavoro a tavola. Vedevamo un Macario che non era il pupazzetto divertente del cinema e teatro, quello con gli occhi sgranati. Era severo, rigido, impenetrabile. Intrappolato nel personaggio, strappava le foto che lo ritraevano nella vita reale».
A casa vostra veniva anche Totò?
«Lui, Carlo Dapporto, Aldo Fabrizi e tanti altri. Ero giovanissimo quando vidi papà e Totò dal fioraio, ai Parioli. Avevano entrambi il cappello Borsalino, con la tesa calata sugli occhiali scuri, e una faccia più da gangster che da comici per non farsi riconoscere. “Tu resti sempre ‘o numero uno”, gli disse Totò. “Ma che dici Antonio, l’Italia ha due numeri uno”. Io, debole in aritmetica, chiesi a scuola se potevano esistere due numeri uno. Fecero sette o otto film insieme. Papà non era una spalla, ma accettò perché Totò, quasi cieco, aveva bisogno di essere guidato sul set».
Lei fece la tivù con lui, anche se il suo amore è la pittura.
«La prima volta fu mamma a portarmi sul set de Il monello della strada, secondo me il suo film-capolavoro. Papà girava una scena con il giovane e straordinario Ciccio Jacona. Vedendo un ragazzino come me, colto da gelosia, mollai un calcio nello stinco di Ciccio e tenni il muso a mio padre per una settimana».
Lei nello show «Macario uno e due» era un accesissimo tifoso del Toro.
«Interpretavo il figlio balengo di Macario con il sogno di diventare raccattapalle. Il mio grido “dai Torino, forza Toro, son tornati i tempi d’oro!” arrivò ovunque. Una volta a Napoli un tassista si fermò per insultarmi per questioni calcistiche: corsi dentro a una farmacia per evitare problemi».
Cosa diceva della sua arte?
«Non capiva le mie opere violente, ispirate dai miei viaggi in Nord Africa dove vidi un’umanità stracciata. La critica inizialmente mi etichettò come pittore della crudeltà. Una volta papà mi disse: “Con queste opere ricordi quelle brutture che io con i miei spettacoli scintillanti e le ballerine ho cercato per tutta la vita di far dimenticare”».
Suo padre se ne andò nel 1980.
«Aveva appena scritturato Albano e Romina per un musicarello, aveva un nuovo show il sabato sera su Rai Uno e doveva essere co-protagonista in un giallo con Tognazzi. In uno dei nostri ultimi incontri mi disse che non era tanto addolorato di dover lasciare la famiglia quanto di non fare quel film con Ugo».