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 2025  ottobre 26 Domenica calendario

«Durante la guerra nonna Adele nascose in casa il nostro medico ebreo. Nel suo atelier da Nureyev a Deneuve. Solo Lagerfeld riusciva ad addolcirla»

La scena della Sala Bianca, a Firenze, fine anni Sessanta, è fortissima: tutti si alzano in piedi ad applaudire la sfilata Fendi. Maria Teresa Venturini Fendi, bambina, eccitata e incredula, comincia a battere le mani. La nonna la sgrida: «Non ci si applaude da soli».
Era questa Adele Fendi?
«Avrò avuto otto anni ed ero contagiata dall’entusiasmo di tutti. Iniziai a battere le mani. La nonna mi rivolse un accenno di rimprovero con lo sguardo: non ci si applaude da soli. Seduta con la mano sul bastone, mi pareva una regina con il suo scettro. E sì, c’era tutta lei: le Fendi non si sono mai sentite arrivate e per questo non si fermano».
Neppure un applauso, eppure aveva già fatto strada.
«Aveva creato una grande base e trasmesso alle figlie quell’incredibile insegnamento di disciplina, diventata autodisciplina. È matematicamente impossibile che cinque persone possano andare così d’accordo per una vita. Le regole che impartì sin da bambine a Paola, Anna, Franca, Carla e Alda hanno creato un unicum indivisibile. Anche la scelta di battezzarle tutte nella basilica di San Pietro era tipica della sua precisione: così i certificati non si sarebbero mai persi. Era tutto misurato e calcolato».
Che idea si è fatta di una nonna così «ferrea»?
«Ho solo un rimpianto: non averla conosciuta bene. Ero una bambina e avevo timore di lei. Nel mio immaginario vedevo che mi portava via mia madre, e questo per me era durissimo. Alle otto passava a prenderla a casa, e io, se volevo vedere mia mamma, sarei dovuta andare in atelier. Il lavoro è sempre stato un collante forte in questa famiglia, e questo per me era difficile da accettare. Ma le mie zie e mia madre non potevano fare diversamente. Io non capivo, anche se ero consapevole delle cose meravigliose che facevano e del rigore con cui lo facevano».
C’erano momenti in cui la sentiva «nonna»?
«Il mio capitolo preferito è quello del Grand Hotel delle Acque. Quando mi faceva il bagno, mi coccolava, miscelava l’acqua, insaponava, lavava i capelli. Era una gioia indescrivibile. Poi tornava ad essere severa. Ricordo anche i Natali a casa sua, con i sermoni di padre Damiani e le buste di velluto blu con i soldi, e i dopo pranzo con i film: Piccole Donne, Via Col Vento, e poi i western, per accontentare i maschi».
Una nonna solo il tempo di un bagno?
«C’era sempre il lavoro. La nostra famiglia è sempre stata ad alta velocità. Io invece ho sempre avuto bisogno di più tempo per capire, riflettere, sognare. Per me era difficile seguire quel ritmo, anche se ne riconoscevo la grandezza».
Perché ha deciso di scrivere questo libro da sola?
«Perché sono miei ricordi. Non tutti possono avere gli stessi. Ho sempre ascoltato, sin da bambina, e sono arrivata alla conclusione che tutta questa potente storia di famiglia non sarebbe mai esistita senza la nonna. Le cinque sorelle sono state un nodo indissolubile che realizzò lei così come il destino di Fendi».
Come ci è riuscita?
«Lei dava valore alle parole. Non si ripeteva mai, non cercava di convincerti: per lei, quello era. Diceva: uno sbaglio si può fare, due no. La parola “impossibile” non esisteva. E con il suo lavoro lo ha dimostrato, senza bisogno di alzare la voce o fare scene. Era una forza silenziosa e impressionante».
La nonna è nata in tutt’altro contesto.
«Sì, si è fatta da sola, completamente. Una donna libera. Mi piace molto il prologo del libro: lei, sedicenne, sui tetti di Roma che si cala per entrare dalla finestra di casa. Una follia, ma rivelatrice: aveva intuito il pericolo e l’ha affrontato. C’è tutta Adele Fendi in questo».
Però nonna Adele nasce Casagrande. Poi sposa Edoardo Fendi nel 1930, a trentatré anni.
«Lei era innamorata del nonno, e da fidanzati cominciano a lavorare insieme. Cambia anche l’insegna e nasce Fendi. Si sposeranno solo dopo, perché la suocera non la voleva. Ma nonna non si è mai arresa. Era assolutista: se le piacevi bene, se no ti giudicava subito. Si sposa tardi per l’epoca e nascono Paola, Anna, Franca, Carla e Alda. Anche in questo è stata avanti».
Eppure, poi si separano.
«Sì. Si amavano molto, ma lei pensava sempre e solo al lavoro. Nonno era un sognatore, ma senza di lei non sarebbe mai arrivato dove è arrivata lei. Ha sofferto per la separazione ma ha fatto quello che le piaceva. Era intelligente, intuitiva, velocissima. Non è stata accomodante: è andata avanti da sola, contando sulle cinque risorse che aveva in casa. E le figlie l’hanno seguita in quel destino che lei vedeva chiaro».

Come era possibile il dialogo con una donna così determinata?
«Era implacabile, ma in senso positivo. Sfidava e superava solo sé stessa, senza mai sentirsi soddisfatta. Implacabili sono diventate anche le cinque figlie. Lei le preparava a un destino comune, infondendo la voglia di fare. Anche il fatto di punirle tutte per lo sbaglio di una sola: un modo per tenerle unite e forti. Non le ho mai sentite litigare con lei ma soltanto sussurrare qualche volta: “E adesso chi lo dice alla mamma?”».
E la regola delle decisioni solo con il consenso di quattro su cinque sorelle?
«Diabolica! Ma se fosse dipeso da lei, avrebbe imposto l’unanimità. Ricordo le riunioni infinite delle sorelle per arrivarci: ore e ore. Ma ci riuscivano sempre. Erano una collettività a senso unico, con un rispetto totale per le regole e la missione comune. Nella mia fantasia ho sempre visto il tutto come un ordine monastico. Le inclinazioni personali in un’unica attività per il bene comune. Nonna Adele ci è riuscita. Oggi sarebbe impensabile: noi assecondiamo i figli, cerchiamo di capirli. Lei, invece, apparteneva a un concetto di onestà etica assoluta. Onorava sempre la parola data e rispettava la puntualità, simbolo di educazione e rispetto».
E c’era anche un lato protettivo.
«Sì, come quella volta che arrivò furente e ritirò le zie dalla scuola delle suore francesi perché mangiavano in una sala che giudicava indegna, mentre al piano superiore c’erano saloni bellissimi. Aveva un grande senso della bellezza e ci teneva che le ragazze fossero educate anche a questo. Preferiva poche cose, ma superlative. Era calvinista nel lavoro ma certosina nella qualità».
Non ci sono molte foto di lei. Che tipo era?
«Da giovane era bellissima, con un viso meraviglioso, mai trucco. Portava sempre una treccia alta e vestiva con chemisier su misura. La sera in tailleur. Durante la guerra non chiuse mai bottega e nascose in casa il medico ebreo di famiglia. Aveva una tempra d’acciaio. In garage teneva una capra e un caprone per il latte, che di notte belavano a squarciagola. Era straordinaria e insieme semplice».
Davanti a Karl Lagerfeld però sembrava addolcirsi.
«Sì, non si sorprese quando le figlie le portarono quel giovane stilista tedesco, geniale e eccentrico. Gli lasciò fiducia assoluta. Con Karl si addolciva. Ricordo un giorno in atelier: vide degli scatoloni sulle scale, li buttò giù col bastone; poi salì, vide Karl e sorrise. Solo lui riusciva a calmarla, segno della sua apertura al talento e alla creatività».
L’atelier era un luogo incredibile.
«Un crocevia delle meraviglie: Monica Vitti, Claudia Cardinale, Virna Lisi, Marella Agnelli, Catherine Deneuve, Marcello Mastroianni, Gassman... Erano gli anni Settanta. Ricordo la nonna, più che settantenne, seduta minuta alla scrivania, con il bastone, silenziosa, mentre davanti Nureyev sventolava una mantella e Lea Massari provava un trench. Quando il negozio chiudeva accadevano sempre queste cose straordinarie. Lei osservava tutto, ma non era mondana: restava sempre la donna del lavoro, concentrata, concreta, decisiva. Una donna faber».