Corriere della Sera, 26 ottobre 2025
Intervista a Claudio Zorzi
Per essere morto 15 anni fa, Claudio Zorzi, primario di ortopedia all’Irccs Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, gode di ottima salute. Mi dà appuntamento alle 5.45 nell’ospedale della provincia di Verona in cui presta servizio da un trentennio. Arriva ogni mattina a quest’ora. Alle 7.30 è atteso in sala operatoria, ci resterà fino alle 13.30. Oggi ha in programma sette interventi. Nel pomeriggio, visite. Ma in ambulatorio troverà solo veneti. Da sei mesi i pazienti di altre regioni, prima numerosi, sono spariti: «Sfido io! Credono che abbia tirato le cuoia».
Zorzi, 72 anni, presidente emerito della Società italiana di chirurgia del ginocchio, è il medico più vivo e meno vegeto d’Italia. Lo risuscitano per qualche mese e subito lo fanno schiattare di nuovo. Dopo tre lustri di dicerie, l’Irccs di Negrar è stato costretto a intervenire con un post su Facebook: «Il “nostro” dottor Zorzi gode di ottima salute e continua a dirigere il reparto e a praticare l’attività chirurgica».
Che cos’è accaduto?
«Stavolta a spedirmi al Creatore è stata AI Overview, l’intelligenza artificiale di Google. Mi ha scambiato con un Claudio Zorzi trentino, deceduto il 15 aprile, medico di base in pensione, che aveva esercitato in Val di Fiemme».
Come lo ha saputo?
«Mi ha telefonato un amico, il professor Pier Paolo Mariani, luminare di Roma: “Ahò, nun ce sta scritto in che cimitero te devo venì a trovà”».
Ci sarà rimasto male.
«M’è toccato rivolgermi allo studio legale Bordiga Xerri di Milano. Ha scritto a Google Ireland Limited, lamentando il danno d’immagine e intimando di rimuovere la falsa notizia. Siccome la diffida è rimasta senza riscontro, dopo 13 giorni ha dovuto spedirne un’altra. Nel frattempo AI Overview aveva persino nominato il mio successore».
Ma no! E chi sarebbe?
«Venanzio Iacono, l’attuale aiuto. Era più basito di me».
Lei ci avrà fatto il callo.
«Secondo le voci, mi sarei suicidato nel maggio del 2010. Mia moglie dovette recarsi dal parroco di Parona, la frazione di Verona dove abitiamo: il prete aveva fissato una veglia di suffragio. E non è tutto».
Che altro le è capitato?
«Hanno sparso la voce che ho il morbo di Parkinson e non posso più operare perché mi tremano le mani. Le osservi». (Le stende nel vuoto). «Ondeggiano, secondo lei?».
Le vedo immobili.
«La prima volta ho riso, la seconda mi sono incazzato, la terza ho pensato: mi allungano la vita. Passeggio in piazza Bra con mia moglie, incontro qualche conoscente e noto che subito osserva le mani».
Riesce a spiegarsi come mai la vogliono in un loculo?
«No davvero».
Invidia?
«Ho impiantato 20.000 protesi fra ginocchia e anche. Ho eseguito 20.000 ricostruzioni dei legamenti e 10.000 fra trapianti e trattamenti su menischi e cartilagini. Chi può invidiare uno stachanovista?».
Non tutti i medici arrivano a occuparsi del Papa, però.
«Sono stato consulente ortopedico del Vaticano per 15 anni. Francesco mi fu presentato nella clinica Pio XI, sulla via Aurelia. Era afflitto da una terribile artrosi ai piedi».
Ha curato tanti cardinali.
«È normale: lavoro in un ospedale fondato da un santo. Ho avuto tra i pazienti Camillo Ruini, presidente emerito della Cei, Ennio Antonelli, l’ex arcivescovo di Firenze, e Gerhard Ludwig Müller, già prefetto della Congregazione per la dottrina della fede».
Anche Sofia Goggia.
«In 15 giorni la rimisi in piedi con due infiltrazioni di Prp. E così conquistò l’argento nella discesa libera alle Olimpiadi invernali di Pechino».
Il Prp che cos’è?
«Plasma ricco di piastrine. Si prelevano le cellule dal sangue del paziente e si centrifugano. Si ottiene una miscela di piastrine, fattori di crescita e citochine, che cura l’usura delle cartilagini dei ginocchi e la tendinopatia della spalla».
Ha operato Gina Lollobrigida, molti atleti, calciatori del Verona e del Chievo.
«Il primo fu Paulo Futre. Giocava nella Reggiana in serie A. Tendine rotuleo rotto. Ero l’ortopedico della squadra. Di recente i pallavolisti Aidan Zingel, australiano, e Mads Jensen, danese».
Il corvo sarà geloso dei suoi successi con Lipogems.
«Siamo stati i precursori di questa tecnica, vantiamo la più ampia casistica mondiale. Ho pazienti in lista d’attesa da un anno. I colleghi vengono qui dal Giappone e dagli Stati Uniti per imparare come si fa. Un mio medico, Daniele Screpis, ha presentato i risultati a un consesso di 51 Paesi».
Quanti Lipogems pratica?
«Circa 8 al giorno, contro le 40 terapie con il Prp, che va ripetuto ogni 18 mesi, mentre il Lipogems dura cinque anni. Con il primo il malato se ne va guidando la sua auto, con il secondo deve usare le stampelle per tre giorni».
In che cosa consiste?
«In un prelievo di cellule adipose dalla zona ombelicale o dalle cosce del paziente, mediante liposuzione. In laboratorio si ricavano cellule mesenchimali multipotenti. Iniettate nelle articolazioni malate, inducono la crescita dei tessuti che formano tendini, cartilagini e muscoli. In pratica è un autotrapianto».
Torniamo agli uccelli del malaugurio.
«Forse mi considerano un intruso. Mio padre Guglielmo era uno dei sarti più rinomati di Verona. Vestiva il duca Cesare d’Acquarone, poi assassinato dalla suocera ad Acapulco, figlio di Pietro, il ministro della Real Casa tessitore del colpo di Stato che il 25 luglio 1943 portò all’arresto di Benito Mussolini. Ogni giovedì a Milano trasformava una suite dell’hotel Principe di Savoia in sala prove per la borghesia. Tra i suoi clienti c’erano Vittorio Duina, proprietario della squadra rossonera nella stagione 1976-1977, e Jair da Costa, l’attaccante brasiliano dell’Inter. Papà avrebbe voluto che diventassi sarto anch’io. Progettava di rilevare dai Corneliani la Abital di Parona, già mi vedeva suo erede su scala industriale. Invece m’iscrissi a Medicina e mi laureai all’Università di Padova nel 1977».
E poi?
«Tirocinante nella divisione di ortopedia dell’ospedale Maggiore di Borgo Trento, allora diretta dal professor Enzo Marcer. Due anni dopo sposai Anna Meneghini, parente di Giovanni Battista, l’impresario che scoprì Maria Callas. Abbiamo due figli. La femmina è ginecologa qui a Negrar».
Chi fu il suo maestro?
«Mario Gandolfi. Arrivò a Borgo Trento nel 1981 e mi disse: “Lei da domani fa il ginocchio”. Mi affidò l’intervento sull’arto di sua moglie Stella, sorella di Pilade Riello, l’imprenditore delle caldaie reclamizzate da Carosello».
Si specializzò in ortopedia e traumatologia con il professor Giovanni De Bastiani.
«Un visionario. Aveva inventato l’Orthofix, sistema modulare che allunga le ossa ai nani. A quei tempi facevamo due interventi chirurgici in contemporanea, c’era una tenda a dividere l’unica sala».
Ora è fra i pochi che mette le protesi a entrambe le ginocchia in una sola seduta.
«Nessuno ci aveva provato prima. Un unico ricovero, un’unica anestesia generale, un’unica convalescenza. Se lei ha i ginocchi malandati e io decido di operarne uno, la faccio vivere per un anno con la schiena storta, perché il carico grava su una sola gamba. Invece operandoli entrambi assume da subito la postura corretta e riprende in fretta una vita normale».
Lo dovrebbero fare tutti.
«Già. Però io sono stipendiato. Per il chirurgo a percentuale, meglio due interventi».
Mi sta dicendo che è un altruista indifferente ai soldi?
«Non lo so. Confesso d’aver pensato tanto a me stesso. Però difendo la meritocrazia. Il contratto con fratel Mario Bonora, all’epoca presidente dell’ospedale di Negrar, fu una stretta di mano. “È la prima volta che un medico non mi chiede quale sarà il suo stipendio mensile”, si stupì».
Fino a quando opererà?
«Usque ad vitam aeternam. Mi hanno rinnovato il contratto fino al 31 dicembre 2028».
Lunga vita, allora.
«Un mio paziente napoletano mi ha donato due cornetti di corallo. Dice che si attivano solo se mi pungo il palmo della mano. Non so se lo farò».