Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  ottobre 26 Domenica calendario

La ferocia e la fortuna del Caudillo. Dopo 50 anni Spagna ancora divisa

«¡Que duro es morir!», quanto è duro morire, mormorava cinquant’anni fa in questi stessi giorni il Caudillo, tenuto in vita artificialmente – il corpo devastato dalle emorragie interne, le lenzuola inzuppate di sangue – per dare il tempo ai suoi fedelissimi, il «bunker», ufficialmente di preparare la transizione, in realtà di completare il saccheggio del Paese e cancellare le tracce.
Alle 10 del mattino del 20 novembre 1975, il testamento politico di Francisco Franco venne letto in televisione dal primo ministro in lacrime: «Penso di non aver avuto altri nemici se non i nemici della Spagna. E non dimenticate che i nemici della Spagna e della civiltà cristiana sono all’erta». La camera ardente fu allestita nel Palazzo reale di Madrid: cinquecentomila persone sfilarono davanti alla bara, «e non tutte erano venute solo per essere certe che Franco fosse morto davvero» scrisse il suo biografo Paul Preston, citando una battuta dell’epoca. Negli stessi momenti, testimoniò lo scrittore Manuel Vázquez Montalbán, a Barcellona «i tappi di champagne balzavano nel crepuscolo autunnale».Vázquez Montalbán scriverà poi un’autobiografia immaginaria di Franco, che comincia così: «Non possiamo saltare alla corda con Merceditas perché i suoi hanno un negozio di ferramenta». In effetti a Ferrol, la città natale ribattezzata Ferrol del Caudillo, i figli degli ufficiali di marina come il piccolo Francisco non potevano giocare con i figli degli altri.
Poi la storia accelerò. Alla fine degli anni ’70 la Spagna divenne una democrazia. Negli anni ’80 diventò un Paese ricco. L’unico in Europa a essere governato più a lungo dalla sinistra che dalla destra. Forse perché la destra affonda tuttora le radici nel franchismo. Del fantasma di Franco la Spagna non si è liberata davvero. Anzi, nei dibattiti in Parlamento, nelle discussioni pubbliche e private, lo spettro del Caudillo è più vivo che mai.
Soldati di Salamina
Venticinque anni fa Javier Cercas, oggi considerato il più importante scrittore d’Europa, scrisse un romanzo sulla guerra civile, che intitolò Soldati di Salamina: come a dire che franchisti e antifranchisti apparivano, nella Spagna del nuovo millennio, remoti come greci e persiani. Il libro non trovò editori: «La guerra civile – rispondevano tutti – non interessa più a nessuno». Quando finalmente uscì, Soldati di Salamina fu un successo mondiale da milioni di copie.
Spiega oggi Javier Cercas che Franco governò la Spagna per quasi quarant’anni come un territorio occupato dalle proprie truppe. Il bene contro il male, la patria contro i suoi nemici: massoni, ebrei, nazionalisti baschi e catalani, comunisti. Ancora il 27 settembre 1975 due militanti dell’Eta e tre del Frap, Frente Revolucionario Antifascista y Patriotico, furono giustiziati. I plotoni di esecuzione erano formati da volontari. Il 2 marzo 1974 l’anarchico catalano Salvador Puig i Antich, nome di battaglia Metge, medico, era stato garrotato, come ai tempi dell’Inquisizione. Papa Paolo VI chiamò per implorare la grazia; Franco non gli venne neppure al telefono. Quando sentì la notizia, Joan Miró tracciò l’ultima linea de La Esperanza del condenado a muerte, il suo trittico che è un grido antifranchista, come lo era stato Guernica durante la guerra. Pablo Picasso era morto nel 1973, senza tornare in patria. Prima che spirasse, Miró gli aveva scritto una lettera, che nessun animo sensibile può leggere senza commuoversi. Joan rievocava i primi anni del secolo, quando Picasso era già Picasso, aveva già dipinto, nel 1907, le Demoiselles d’Avignon, dando dignità artistica alle prostitute del carrer d’Avinyó, nel cuore di Barcellona, e lui, Miró, era solo un ragazzo, ma Picasso l’aveva preso a benvolere, e gli aveva anche schizzato un ritratto. Ora nella Spagna di fine regime si preparava una grande mostra di Miró, e lui chiedeva al suo amico Pablo il permesso di esporre quel ritratto di tanto tempo prima, precisando che in nessun modo sarebbe stato presentato come una sua legittimazione della dittatura. Non si ha notizia della risposta di Picasso.
Il primo ottobre 1975, all’indomani delle fucilazioni, Franco comparve in pubblico per l’ultima volta. Si congedò dalla folla levando le braccia al cielo. Pianse. Spese l’ultimo filo della sua voce chioccia, che contrastava con la sua ferocia, denunciando «una cospirazione massonica di sinistra, interna alla classe politica, in un osceno connubio con la sovversione operata nella società da terroristi e comunisti». Insomma, Franco conosceva talmente poco il Paese che occupava militarmente da non intuire che dopo di lui non sarebbe venuta la rivoluzione ma la movida, non Fidel Castro – con cui peraltro coltivò sempre un ottimo rapporto personale, tra gallegos: entrambi erano di origine galiziana – ma Pedro Almodóvar.
Franco era fascista?
Ancora oggi, in Spagna e non solo, si discute su quale fosse la natura del regime. Francisco Franco non era un fascista in senso tecnico. Era un nazionalista spagnolo, temprato dalla guerra coloniale in Africa, dove aveva dimostrato due caratteristiche che avrebbe confermato nel resto della vita: la crudeltà, e la fortuna. Lo sprezzo per la vita altrui, e la baraka, quell’aura di immortalità e invincibilità percepita sia dai suoi soldati, sia dai suoi nemici. Un’incredibile sequenza di coincidenze eliminò tutti i generali di grado superiore a lui; e Franco si trovò a guidare l’Alzamiento, insomma il golpe contro la Repubblica spagnola e il governo democraticamente eletto.
Tuttavia, la guerra di Franco aveva anche una forte componente ideologica. Il Caudillo si convinse che la guerra civile non era un fatto solo militare. Che non bastava sconfiggere il nemico; bisognava eliminarlo. Fucilando i prigionieri, stringendo un’alleanza con la Chiesa – che i repubblicani colpivano con ottusa ferocia —, recuperando i simboli della Spagna eterna: i re cattolici, l’impero, e Santiago Matamoros, che compare a cavallo sui campi di battaglia e fa strage di infedeli. Poi, certo, gli alleati di Franco, fascisti e nazisti, persero la guerra mondiale. E il braccio che pure Franco aveva teso nel saluto romano si abbassò man mano che le truppe alleate si avvicinavano a Roma e a Berlino. La Falange fu chiusa nello sgabuzzino delle scope. Il governo si fece meno ideologico e più tecnocratico. Ma giunse a strappare ai «sovversivi» i figli, per affidarli a famiglie cattoliche e benpensanti.
Il re, il governo, Vox
Oggi il Caudillo viene citato alle Cortes, il Parlamento, quasi ogni giorno. La sinistra accusa la destra di nostalgie franchiste. La destra accusa la sinistra di usare Franco per legittimare le proprie nefandezze. E la discussione infuria anche fuori dal Palazzo. Prosegue in ogni tavolata, in ogni famiglia. Ufficialmente, non se ne parla mai. In realtà, se ne parla sempre. E la faglia di divisione è la stessa del 1936. Chi ha avuto il nonno antifranchista, maledice Franco. Chi ha avuto il nonno franchista, ricorda che pure Franco ha fatto cose buone, e dall’altra parte c’erano anarchici e stalinisti, che non volevano certo la democrazia… Vi ricorda qualcosa?
Vox, partito anti-antifranchista, andrà probabilmente al governo alle prossime elezioni. Ma la prima forza sarà il Partito popolare. Fondato da Manuel Fraga Iribarne, gallego come Franco, come l’ex premier del Pp Mariano Rajoy e come l’attuale leader del Pp, Alberto Feijóo. Intervistai Fraga Iribarne vent’anni fa. Parlava di Franco come di un grande leader. I fucilati, i garrotati? «Terroristi che per la mentalità del Caudillo meritavano la morte». La Catalogna irriducibile? «Ogni volta che andavamo a Barcellona sfilavamo tra due ali di folla plaudente, le grandi famiglie catalane facevano a gara a chi poteva ospitare il Caudillo anche solo per un caffè». Re Juan Carlos ha ricordato Franco e si è commosso: «Mi prese la mano e mi disse: “Altezza, le chiedo solo un cosa, mantenga l’unità della Spagna”. Furono le sue ultime parole». L’attuale capo del governo, Pedro Sánchez, ha traslato il corpo del dittatore dal Valle de los Caídos, costruito dai prigionieri di guerra repubblicani, dove Franco si era fatto erigere dai vinti una tomba degna di Achille, e l’ha fatto tumulare in un cimitero della periferia di Madrid, prima cappella a sinistra. Il suo paese natale non si chiama più Ferrol del Caudillo, la sua statua a cavallo è stata rimossa dalla piazza. Ma le guerre civili non finiscono mai; e non è poi così certo che Franco sia morto davvero.