Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  ottobre 24 Venerdì calendario

Mutilazioni genitali femminili in Italia. Le nuove generazioni abbattono il tabù

Quando si parla di mutilazione genitale femminile (Mgf) si pensa ai Paesi africani, ma anche in Italia il rischio che una minore subisca questa pratica è una realtà ancora lontana dall’essere superata del tutto. «Nel nostro Paese, al primo gennaio 2023, si stimano circa 88.500 donne che hanno subito le Mgf, un aumento dell’1% rispetto alle stime che abbiamo pubblicato nel 2019 e che è legato al flusso migratorio. La grande maggioranza di queste donne infatti è nata all’estero (98%), ma anche le bimbe nate in Italia sono a rischio», ha spiegato ieri Patrizia Farina, dell’Università Bicocca nella Sala Consiglio della Città Metropolitana di Milano, presentando la nuova ricerca realizzata insieme all’Università di Bologna durante un evento promosso dai due atenei, in collaborazione con Amref Health Africa.
La prevalenza più elevata – ha precisato Farina – si registra tra le donne over 50 e si riduce al diminuire dell’età. Secondo l’indagine, le comunità con numeri assoluti più alti sono egiziane, nigeriane ed etiopi, «soprattutto per effetto della maggiore presenza di queste comunità nel nostro Paese». L’incidenza più alta, invece, si registra tra le donne somale, sudanesi e guineane: «Anche le bambine sotto i 15 anni sono ancora potenzialmente a rischio di Mgf. In Italia ne abbiamo calcolate circa 16mila». Nonostante i numeri ancora alti «e la consapevolezza che nel 2035 non riusciremo a raggiungere l’obiettivo dell’abbandono totale di questa pratica», l’evento milanese ha voluto lanciare anche qualche nota di speranza. «La Mgf riguarda circa 230 milioni di donne. Tuttavia, non solo in diversi Paesi si registrano riduzioni significative, ma le nuove generazioni ci mostrano un attivismo e una capacità di prendere in mano la questione e affrontarla che ci incoraggia», ha concluso Farina, passando la parola proprio a delle ragazze italiane con background migratorio, che durante l’evento hanno raccontato quanti muri sul tema sono riuscite ad abbattere nelle loro comunità di origine presenti in Italia attraverso la partecipazione a “Y-Act” (Youth Action), un progetto di Amref cofinanziato dall’Ue e ora sostenuto da Msd. «C’è bisogno di parlare di più di Mgf anche in Italia perché chiaramente l’immigrazione può portarsi dietro questa pratica», ci spiega a margine la 25enne di seconda generazione Esraa Newir, studentessa di Ingegneria a Bergamo. «Dopo due anni di lavoro nel progetto ho capito che soprattutto le prime generazioni tendono a sentire il bisogno di mantenere alcune tradizioni per non perdere il legame con il Paese di origine, dove magari queste pratiche però nel frattempo sono quasi superate. Molti paradossalmente lo fanno pensando di proteggere le proprie figlie e non riconoscono le conseguenze sulla salute neppure se hanno subito la Mgf. Bisogna non giudicare e spiegare partendo dai valori condivisi, come appunto l’amore per le figlie». Come Esraa, anche Jasmina El Shouraky, 21enne studentessa di Psicologia clinica alla Cattolica, è egiziana di seconda generazione ed è entrata nel progetto sentendo la responsabilità di fare da ponte, sia per le bimbe che verranno che per le persone più grandi. «Ognuna ha la propria storia ed è giusto che possa riappropriarsene, decidere da sé come è meglio procedere: molte non si riconoscono né come vittime né come sopravvissute. Dobbiamo innanzitutto ascoltare e capire cosa significa per loro e per la comunità questa pratica – racconta Jasmina –. Anche per me che guardo dall’esterno è stato molto forte scoprire l’impatto che la mia stessa cultura e il mio Paese di origine hanno avuto su quelle vite. Quindi in questo progetto non do solo voce ad altre donne sperando di renderle protagoniste, ma mi metto in discussione».
L’abbattimento del tabù si fa con passi concreti, a partire dall’empowerment femminile, il coinvolgimento degli uomini – che possono avere un’influenza maggiore sulla comunità – e l’incontro intergenerazionale nelle proprie famiglie. «Avevo già un buon rapporto con mia madre – racconta per esempio Rowida Abdelaziz, anche lei studentessa di Psicologia –, ma partecipare a questo progetto insieme ci ha permesso di aprire un dialogo che prima non c’era su certi temi e questo ha fatto bene a entrambe».
Come ci dice infine Paola Crestani, presidente di Amref Italia, la testimonianza delle ragazze è dirompente «e ci fa vedere una buona pratica per dare voce al silenzio, perché più riusciamo a parlarne senza pregiudizi più abbattiamo il muro della diffidenza e salviamo le generazioni future da questo dolore». Il lavoro in Africa di Amref, spiega, sta portando frutti, come dimostrano i numeri in diminuzione nel mondo, «ma le seconde generazioni ci insegnano che se vogliamo davvero abbattere la pratica che ha conseguenze enormi sulla salute fisica e mentale delle donne, dobbiamo partire dal rispetto, creare collaborazioni, coinvolgere le comunità».