Corriere della Sera, 24 ottobre 2025
Democrazia gli errori a sinistra
Dopo l’accostamento fatto da Elly Schlein tra l’attentato a Sigfrido Ranucci e l’«estrema destra» al governo, con conseguente proclamazione della «democrazia a rischio», è forse giunto il momento che la sinistra italiana, i suoi politici e i suoi elettori, i suoi intellettuali e i suoi giornalisti, decidano una buona volta in che Paese pensano di abitare. Se nell’Italia reale – e cioè in un Paese mediamente democratico, mediamente amante della pace; mediamente maschilista (ma pure femminista); mediamente interessato all’eguaglianza ma attaccato alle diseguaglianze che ci fanno comodo; in un Paese con un diffuso tasso di evasione fiscale e d’inosservanza delle regole (peraltro distribuito in egual misura tra i cittadini di destra e di sinistra) – oppure in un altro Paese, in un’altra Italia. Cioè nell’Italia dei loro discorsi di oppositori duri e puri: un’infelice contrada dove per l’appunto la democrazia è a rischio, dove ai più, dunque, non importerebbe nulla della libertà, di pensare, dire, scrivere, leggere o vedere quello che gli pare, non interesserebbe molto continuare a votare per il partito che vogliono, o se invece preferiscono essere spiati e intercettati dal potere, essere governati da un governo di potenziali oppressori o di politici mediamente democratici.
È importante per la sinistra decidere in quale Paese vive, decidere che cosa è l’Italia di oggi.
Infatti dalla risposta dipende una questione cruciale: la sua identità politica stessa, e di conseguenza anche la sua offerta elettorale. Dipende cioè se la sinistra si considera essenzialmente come la sola speranza rimasta della democrazia italiana, come il fulcro del nuovo necessario Cln all’insegna di una «nuova Resistenza», o se invece, più modestamente (realisticamente?) essa pensa di doversi dotare di un programma elettorale, diciamo così normale. Un programma, per capirci, tipo quale politica estera adottare e con quali alleanze, chi tassare e quanto, quali investimenti pubblici promuovere, cosa fare riguardo all’immigrazione o alla sicurezza e altre questioncelle del genere. E con tale programma invece di rischiare di andare a via Tasso andare alle urne.
È opportuno farsene una ragione: la democrazia obbliga tutti a una cosa sgradevolissima. Ad accettare l’idea che esistono gli «altri», i quali hanno quasi sempre il vizio di non pensarla come noi senza che ci sia verso di fargli cambiare idea. E per giunta non la pensano come noi anche se nessuno li obbliga, e magari non ci guadagnano niente. Eppure è così. Ma non è frutto della reazione alle porte: è il carattere misteriosamente multiforme dell’umanità. Sicché se si vuole arrivare a prendere tutti insieme una decisione non c’è che un’alternativa: o la guerra civile o contarsi. Cioè la democrazia: accettare l’esistenza degli altri e delle loro idee sperando, se si perde, nel prossimo giro e cercando di esserci con idee e proposte più convincenti di quelle dell’avversario.
È precisamente quest’idea competitiva della democrazia, di una gara dove i valori e i programmi più diversi sono tutti eguali ai nastri di partenza – nel senso che ciascuno ovviamente pensa che i propri siano i migliori ma in realtà non esiste alcuna misurazione oggettiva che possa comprovarlo —, è questa idea che la sinistra ha difficoltà ad accettare. Perché essa è convinta che, a differenza di quelli dei suoi concorrenti, i propri valori, le proprie proposte, solo essi sono dalla parte del giusto. Per una ragione che spazza via ogni dubbio: perché sono eticamente superiori, aspirano al bene, sono espressione del bene contro il male, come del resto essa stessa ama pensare di essere. Mentre agli avversari, si capisce, è riservata in ogni caso la sgradevole parte di rappresentanti del male.
L’eticizzazione della politica, la tendenza della sinistra a concepire la politica come lotta tra il bene e il male, è un’eredità della sua convinzione – mille volte smentita dai fatti ma che importa? – di essere dalla parte della storia, di marciare all’unisono coi tempi, di essere la rappresentante per antonomasia del progresso (ciò che ha anche il vantaggio di lasciare agli avversari lo scomodo ruolo di rappresentare, altrettanto per antonomasia, il regresso, la reazione, il buio delle tenebre contro il sol dell’avvenire).
Ma l’eticizzazione della politica se può servire benissimo quando si arriva agli estremi, quando il male c’è veramente e perciò serve commuovere le folle per portarle sulle barricate, quando invece si vivacchia nel tran tran democratico, come noi più o meno vivacchiamo, allora sortisce un solo effetto: di ridurre la politica a declamazione. Cioè di mettere il dire al posto del fare, la retorica al posto del ragionamento, le parole vuote al posto delle proposte concrete. Ma la retorica e il grido non hanno mai aperto la via del successo a nessuno. Sono una droga che molto spesso uccide.