la Repubblica, 23 ottobre 2025
Quando disse: "Salvare un altro giornale ? Perché no"
La cosa che mi piaceva di più era la scrivania quadrata, che sembrava non avere un posto di comando e offriva tutti i lati uguali ai visitatori. Sotto, accucciata ma vigile, spesso veniva a passare le mattine in ufficio Luna, con le orecchie dritte come se ascoltasse i discorsi. Carlo si appoggiava allo schienale della poltrona, mordicchiava una stanghetta degli occhiali che infilava e toglieva, chiedeva notizie su qualche firma nuova che era spuntata qua e là, magari
sfiorava la fase politica più con curiosità che con interesse, poi senza parere dava il suo giudizio su un giornale: e ti accorgevi ogni volta che leggerli per lui era capirli, anzi sentirli, misurarli nel divenire, cogliere la loro misteriosa essenza, che è ciò che inconsapevolmente cercano i lettori ogni mattina quando aprono le pagine del loro quotidiano, perché è ciò che li lega ad un patto di fedeltà culturale e li trasforma da clienti a partner di un’avventura intellettuale.
Dietro quelle fragili cattedrali di carta sapeva vedere la dimensione industriale, la portata commerciale, la rappresentanza locale o nazionale, potremmo dire l’impresa e la pretesa che ogni giornale porta con sé. Questo faceva di lui un editore nel senso pieno del termine, anzi come ammise una volta Gianni Agnelli – credo con qualche fatica, vista la sua passione per la carta stampata – «l’unico vero editore di giornali che ci sia in Italia». Ma la spinta di
quell’editore era dall’inizio alla fine la passione, il piacere di vivere il tempo effimero dei giornali, di sapere come si cercano dal mattino, si compongono durante il giorno, prendono forma la sera e poche ore dopo già si disfano, quando il lettore volta l’ultima pagina.
Conoscendo e conservando però il vero segreto del quotidiano, e cioè il deposito di significato che resta dopo la scrittura e la lettura, qualcosa che rimane perché è qualcosa che vale. Forse proprio per questa ricerca di senso, che è il vero obiettivo e il risultato invisibile del
lavoro, scusava i vizi, le velleità e le manie dei giornalisti, la razza con cui ha scelto di vivere e di scambiare quotidianamente, come se fossero degli avamposti di sorveglianza e di interpretazione del reale che nelle chiacchiere a tavola in via della Lungarina (dove non gli
piaceva pranzare da solo) gli rivelavano i segnali che avevano colto, gli indizi di un mutamento, i retroscena di una vicenda, le avvisaglie di un fenomeno nuovo. L’abitudine al libertinaggio intellettuale lo faceva passare, sempre uguale, da Umberto Eco a un giovane appena assunto, da Moravia a un fotografo, da Kundera a un vignettista che si affacciava per la prima volta alle pagine di un quotidiano. Sembrava sapere che in realtà un elemento teneva insieme il tutto: un modo di guardare al mondo, una scelta di campo, una curiosità per l’altra
parte di quello stesso campo, persino un sistema di valori e ciò che chiamavamo un sentimento comune, politico e intellettuale. Molto semplicemente, e come sempre senza
nessuna retorica, era una cultura: che lui coglieva mentre si confermava e si accumulava, e la custodiva, attento a testimoniarla e trasmetterla in ogni giornale che aggiungeva alla catena del gruppo editoriale, la sua vera costruzione imprenditoriale e giornalistica realizzata su
tutto lo scheletro del Paese. Diceva che comprando giornali a Nord, al Centro e al Sud e fondandone di nuovi dove non c’erano, si sottraeva l’informazione di territorio ai potentati
locali e nello stesso tempo si portava in quelle aree l’imprinting del Gruppo Espresso, una delle grandi scuole del giornalismo italiano. Così sul suo tavolo quadrato c’era sempre l’ultima copertina dell’Espresso e un fascio di pagine strappate dai quotidiani locali, ognuna con il
segno di un lapis blu a segnalare un articolo, una notizia, un reportage, un commento. Verso sera spediva a Repubblica altre pagine con uno spunto per un’intervista, con l’idea per un’inchiesta accompagnate da poche righe scritte con caratteri giganteschi, come se lui governasse l’incrocio tra l’informazione locale e quella nazionale, e sapesse mixarle, invitando gli altri a farlo. Credo che questo mélange gli abbia permesso di annusare giornali sempre, e di non annoiarsi mai: naturalmente c’era tempo per qualche giro di poker, dove scaricava lo stesso azzardo che gli consentiva di negoziare l’acquisto di nuove testate, c’era il weekend circondato da amici a Garavicchio o Torrecchia, c’era modo di viaggiare tirando fuori dalla
tasca a pranzo la lista dei ristoranti del luogo preparata dai critici gastronomici dell’Espresso, c’era spazio per intrecciare relazioni consanguinee con il País, con l’Independent, con la Gazeta Wyborcza, con Le Monde prima e con Libération più tardi, quando divenne socio di Rothschild entrando nella proprietà e spiegando: «Alla mia età, se posso ancora essere utile a un giornale, perché non farlo?».
Un appuntamento fisso era la telefonata della domenica mattina con Carlo De Benedetti, l’azionista di maggioranza, con un lungo giro d’orizzonte, quasi volessero controllare ogni volta tutti i bulloni che reggevano la loro avventura comune, perché fossero a posto. Con Scalfari c’era qualcosa di meno e molto di più che con tutti gli altri: mi sono sempre stupito di
quanto poco si vedessero, finché ho capito che non ne avevano bisogno. Bastava osservarli quando erano insieme, un lampo negli occhi, un cenno col capo, e la vecchia, eterna intesa continuava a riprodursi come sempre, intatta. Nel governo editoriale si appoggiava all’energia dei manager che reggevano l’azienda, prima Marco Benedetto poi Monica Mondardini: e rispettava l’autonomia delle redazioni, sapendo che dovevano filtrare da sole la loro chimica misteriosa.
Il centro dello scambio era la sua stanza, quel tavolo quadrato dove sono nati giornali, sono passate due generazioni di cronisti e direttori, si sono avvicendati politici. A tutti, lui trasmetteva la sensazione di far parte di un circolo, una società di donne e uomini che si erano
scelti in una passione comune, molto più che in un lavoro. «Sono un editore fortunato», disse alla fine, scegliendo il titolo della biografia scritta con Nello Ajello. Ma in realtà siamo stati fortunati noi, Carlo, a vivere con te quegli anni di carta e d’inchiostro per sbarcare nella civiltà del computer, nel privilegio di leggere la realtà attraverso quello spirito di club capace di trasmettere una certa idea dell’Italia, qualcosa che sta a cuore a noi e ai lettori.