Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  ottobre 23 Giovedì calendario

Caracciolo il principe degli editori

Sono passati meno di vent’anni dalla scomparsa – e un secolo esatto dalla nascita – ma la figura del principe partigiano sembra appartenere a un’era lontana, ultimo rappresentante di una specie quasi del tutto estinta, quella degli editori puri, privi di altri interessi al di fuori
dell’impresa giornalistica. E per Carlo Caracciolo il successo editoriale coincideva con il progresso civile del Paese, perché dalle battaglie del giornale dovevano scaturire «una maggiore efficienza delle strutture dello Stato» e «una maggiore giustizia sociale»: così è
esplicitato anche nel manifesto fondativo di Repubblica, scritto da Eugenio Scalfari e condiviso dall’editore, come tutte le decisioni importanti uscite da piazza Indipendenza.
Nella «linea laica e antifascista», rivendicata sin dalla prima riga della carta, si rifletteva anche la sua biografia. Figlio di un aristocratico napoletano vicino al Partito d’Azione, appena diciottenne dopo l’8 settembre del 1943 era partito per la Val d’Ossola, teatro di uno scontro
feroce tra partigiani e camicie nere, rischiando più volte di rimetterci la pelle. Arrivò a fingersi morto dopo lo sparo di un fascista. Nel dopoguerra avrebbe ritrovato sotto il doppio petto del Movimento sociale i suoi antichi persecutori della Decima Mas, riuscendo a sorridere dei loro gesti sguaiati. Anche i ricordi partigiani venivano restituiti con quello stile svagato e in apparenza distante che ne costituiva un tratto essenziale, aristocraticamente impermeabile a ogni eccesso di enfasi. E agli episodi coraggiosi della personale epica resistenziale preferiva
quelli più gradassi, come quando arrivato a Milano alla vigilia del 25 aprile, stropicciato da più notti insonni, riuscì a requisire in via Manzoni una stanza al Grand Hotel et de Milan, simulando un ordine del Comitato di liberazione nazionale.
L’editoria era la sua passione, coltivata con divertimento e non senza una dose di azzardo. Del giocatore di poker si riconosceva la capacità di calcolare il rischio, insieme a una curiosità mai troppo celata per quelli che chiamava con un eufemismo douteux personnages, i personaggi dubbi. Dell’arte degli scacchi possedeva l’astuzia filtrata dalla riflessione. All’inizio furono solo testate tecniche come Humus, Strade e traffico, Imballaggi e Poliplasti, una galleria di riviste che accompagnavano la trasformazione industriale del Paese, apparentemente estranee agli
interessi del giovane principe biondo che aveva perfezionato gli studi giuridici ad Harvard, fermandosi poi in uno dei più prestigiosi studi legali di New York. Ma era pur sempre un universo di carta, una sorta di prova generale per il futuro impero editoriale. Colto e cosmopolita – la madre Margherita Clarke era un’americana di New Orleans – al titolo nobiliare
di “principe di Castagneto e duca di Melito” non sembrava dare grande importanza. «Castagneto non so dove sia», avrebbe raccontato ormai ottuagenario, «quanto a Melito, mi ci sono imbattuto per caso grazie a un simpatico taxista». La prima sliding door fu l’incontro con il quasi coetaneo Scalfari, al principio degli anni Cinquanta. La seconda il sodalizio con Adriano il Mago, l’Olivetti imprenditore illuminato, grazie al quale nel 1955 sarebbe nato l’Espresso, il settimanale in formato lenzuolo destinato a terremotare il paludato mondo dell’informazione italiana. Caracciolo ha trent’anni, Scalfari uno di più. Il primo diventa la “cassaforte” del giornale, messo al riparo da chi ne volesse compromettere l’indipendenza; il secondo insieme ad Arrigo Benedetti traccia la linea politica e l’ispirazione culturale. Una
spartizione nitida che però prevede alimento reciproco. Senza Caracciolo – avrebbe raccontato Scalfari – sarebbero mancate quella “dimensione imprenditoriale” e “quella smania di espansione capitalistica” che segnarono la fortuna dell’impresa, contagiando la loro stessa
amicizia.
Nasce allora un sodalizio formidabile, capace di lasciare un segno nel giornalismo e nella storia del Paese. Anche a Repubblica, il quotidiano germogliato dall’Espresso ventuno anni più tardi, resiste inalterata la formula dell’intesa, senza prevaricazioni né gelosie, soprattutto
libera da quegli incastri psicologici che prevedono dominanti o succubi. Dice moltissimo una celebre fotografia di Vittoriano Rastelli, scattata nella villa di Giorgio Mondadori a Sommacampagna, dopo la firma dell’accordo che sancisce la nascita del giornale. È il luglio
del 1975. Lo sguardo, il taglio della bocca, il movimento della sigaretta tra le labbra. La divertita complicità tra i due passa attraverso i corpi. E sembra di avvertire anche il calcio sotto il tavolo che Caracciolo raccontò di aver dato al suo socio, al termine delle trattative.
Il sodalizio avrebbe retto nei passaggi più difficili della storia italiana: dalla stessa parte negli anni del terrorismo contro chi gridava «né con lo Stato né con le Br», e dalla stessa parte durante Tangentopoli, quando colava a picco il sistema politico italiano, complice il malaffare della Dc e del Psi. Insieme combatterono la guerra di Segrate e il tentativo di Silvio Berlusconi di annettersi Repubblica, facendo ciascuno la propria parte: Scalfari al timone di un giornale mai arreso all’"invasore”, Caracciolo impegnato insieme a Carlo De Benedetti sul difficile fronte giudiziario, inquinato dal potere corruttivo dell’avversario. Fin dal principio della sua storia di editore, aveva creduto in un’informazione libera da ingerenze. Si era rifiutato di
cedere ad amici della Democrazia cristiana le sue quote del settimanale Espresso quando il cognato Giovanni Agnelli gli aveva proposto in cambio la direzione negli Stati Uniti della prestigiosa Bantam Books. Per la Fiat la pressione del governo era diventata insostenibile.
Al di là della parentela tra Caracciolo e Agnelli, che ne aveva sposato la sorella Marella, non c’era nessuna relazione tra l’azienda torinese e il giornale di via Po. Ma la Dc di Amintore Fanfani premeva perché la Fiat prendesse le distanze da quei sinistri rompiscatole. Caracciolo si tenne strette le sue quote dell’Espresso, ma fu costretto a restituire ad Agnelli le azioni di una società che controllava la Bompiani e una parte di Adelphi e Boringhieri. E a chi gli chiedeva se la vicenda avesse lasciato tracce nel rapporto con il cognato, rispondeva: «Assolutamente no, ovviamente».
La sua personale costellazione di affetti è rimasta avvolta da un velo di discrezione, unici punti certi la molto rimpianta moglie Violante Visconti, i fratelli Marella e Nicola, e la figlia Jacaranda riconosciuta dopo vent’anni. Per molto tempo – raccontano gli amici – ha fatto
fatica a vincere la timidezza e, soprattutto, a vincere le tentazioni. Non si contano gli amori sparsi nel mondo, con due figli che hanno avuto la soddisfazione di un risarcimento postumo.
Dell’imprenditore non ha mai perso la vocazione al rilancio. Anche l’archivio di Scalfari ne restituisce quella proiezione nel futuro che ne cementava l’intesa, la capacità di anticipare la concorrenza moltiplicando gli investimenti a salvaguardia del giornale. Fu di Caracciolo l’idea di creare una rete di quotidiani locali, tutti radicati nel territorio. Così come guardava costantemente oltre i confini italiani, mirando alla costruzione di un grande giornale europeo che desse voce a un’opinione pubblica sovranazionale. Se questo progetto è fallito insieme al sogno europeista, niente gli ha impedito poco prima di morire di acquistare il trenta per cento di Libération, il quotidiano della gauche francese che navigava in cattive acque. Fino alla fine amico dei giornali. E sempre, con quella sua eleganza distratta, dalla parte della democrazia.