corriere.it, 23 ottobre 2025
Intervista a Romano Artioli
Racconta, con lo stesso slancio, di quando venne eletto rappresentante degli studenti a scuola così come di quando, divenuto imprenditore di successo nel settore dell’auto, consegnò personalmente la supercar che aveva ideato e realizzato a un cliente di nome Michael Schumacher. In fondo i due aneddoti, così distanti, sono accomunati dalla stessa straripante voglia di fare che ancora oggi, a 92 anni, Romano Artioli riesce a trasmettere. Bolzanino d’adozione, ha lasciato il segno nel mondo dell’automobile per essere stato l’artefice del rilancio di due marchi prestigiosi come Bugatti e Lotus.
Romano Artioli, lei è originario di Mantova. A che età arrivò a Bolzano?
«Avevo 5 anni. Mio papà lavorava con le forniture di carne refrigerata per i militari e all’epoca in Alto Adige c’erano molte caserme. Inizialmente abitavamo a Santa Maddalena ma poi, dal settembre 1943, iniziarono i bombardamenti sulla città e divenne pericoloso abitare così vicini alla stazione: mio padre decise di trasferirci nella parte nuova della città, in piazza Mazzini, dove c’erano i rifugi antiaerei. Fu una fortuna: dopo sei mesi la casa di Santa Maddalena venne colpita da una bomba. Proprio in quegli anni mi capitò tra le mani il libro che mi avrebbe cambiato la vita».
Quale?
«Si intitolava “Come ottenere la patente diesel”. Mi innamorai subito di quel mondo fatto di tecnica e motori, capii che sarebbe stata la mia strada. Poi frequentai le Iti. Avevo solo 16 anni quando, nel nostro garage nel palazzo Rossi, in piazza Mazzini, iniziai riparare le prime auto».
Era un giovane intraprendente.
«Non solo con le auto: a scuola venni eletto presidente del circolo degli studenti e decidemmo di organizzare delle feste per poter conoscere le ragazze (ride, ndr ): il nostro “Tè danzante” nella taverna municipale, l’attuale Circolo cittadino, fu un successo. Ma le ragazze venivano sempre accompagnate dalle mamme e così ci inventammo le gite sciistiche: almeno in quel caso le mamme stavano a casa».
Com’è iniziata la sua carriera da imprenditore?
«In famiglia aprimmo nei primi anni cinquanta la concessionaria ed officina Garage 1000 Miglia. Poi a fine anni Settanta fondammo la Autexpò. In quel periodo mi recai a Maranello per chiedere di ottenere la rappresentanza della Ferrari per l’Alto Adige, perché qui c’erano degli appassionati con buona disponibilità economica. A Maranello trovai venti auto in stock e proposi ad Enzo Ferrari di prenderle tutte: staccai l’assegno senza indugi e il commendatore restò sorpreso da questo mio gesto. Gli chiesi se avrebbe potuto inviare Niki Lauda all’evento che intendevo organizzare, da lì a poco, per presentare quelle auto ai potenziali clienti: Lauda non solo venne, facendo tappa a Bolzano mentre rientrava da Maranello a casa sua in Austria, ma fu disponibilissimo. Ci trovammo all’hotel Scala e lui fece fare un giro ai potenziali clienti che avevo invitato, guidando fino al Renon la 308 Gtb: erano tutti talmente entusiasti, per aver vissuto quell’esperienza con un campione di F1, che firmarono subito i contratti d’acquisito. Anche il nostro rapporto con Ferrari decollò: diventammo concessionario ufficiale per il Triveneto e poi aprimmo una sede anche a Stoccarda. Il mercato in Germania andava a gonfie vele, ma poi, con l’acquisizione del 90% della proprietà da parte della Fiat, e la morte di Enzo Ferrari, ci venne data la disdetta perché avrebbero gestito direttamente loro le vendite».
Per lei però fu un nuovo inizio: arrivò l’avventura Bugatti.
«Sì, era il sogno di una vita che si realizzava. Facciamo un passo indietro: nel 1952 la Bugatti aveva terminato la produzione di auto e per me fu un vero choc, perché era la prima marca al mondo per qualità e innovazione. Allora mi dissi: se non ci penserà qualcun altro, sarò io a ridare vita alla Bugatti. Se si vuole raggiungere un obiettivo nella vita bisogna avere i soldi per finanziarlo: io ho lavorato quasi 36 anni per poter poi acquisire nel 1987 il marchio Bugatti dal governo francese, allora proprietario, e costruire la nuova fabbrica a Campogalliano, in provincia di Modena, ed avviare la produzione. Non fu un’operazione semplice, ma ci riuscimmo. La fabbrica, all’avanguardia, la progettò un mio cugino architetto, Giampaolo Benedini. Per la realizzazione dell’auto diedi carta bianca ai progettisti modenesi, indicando solo le linee guida: volevo la trazione integrale e che l’auto fosse realizzata interamente da noi, motore compreso. Volevo che tutto fosse originale, progettato appositamente. Così nacque l’EB 110».
Era la migliore supercar dell’epoca?
«Non lo dico io. Lo disse Michael Schumacher, che fu invitato da una rivista francese a svolgere un test comparativo tra varie supercar: disse che la EB 110 era la migliore. Mi disse: “Quest’auto è avanti di 30 anni rispetto alle altre”. E infatti venne subito ad acquistarne una: la scelse gialla con gli interni blu, senza chiedere nessuno sconto».
Dove avvenne la presentazione dell’auto?
«Nel 1991 a Parigi, con Alain Delon. Pensi che fu lui a proporsi. Delon era un grande appassionato d’arte e collezionava le sculture di Rembrandt Bugatti, fratello di Ettore. Alain Delon fu il padrino d’eccezione dell’evento, sfilando a bordo della EB 110 sugli Champs-Élysées».
Un’avventura iniziata bene ma finita anticipatamente, con la chiusura nel 1995.
«Accadde qualcosa di inspiegabile, arrivavano pochi ordini. Qualcuno ci voleva male, mettendo in atto un sabotaggio che alla fine ci portò al fallimento. Io però ci tenevo al nome Bugatti e riuscii a salvare comunque il marchio, che cedetti alla Volkswagen, sapendo di potergli garantire un futuro».
Nel frattempo rilevò anche la Lotus?
«Sì, era il 1993 e la General Motors, allora proprietaria, voleva cedere la Lotus. Io ero in ottimi rapporti con i vertici Gm, perché avevo fondato l’associazione dei loro concessionari. Inoltre avevo convinto il famoso preparatore Virgilio Cornero a collaborare con loro ed allestire la Opel Gt per le gare. Fu un successo incredibile, con mio cugino Giampaolo Benedini, che oltre ad essere architetto era anche un ottimo pilota, al volante della Gt: riuscì nell’impresa di battere le Porsche 911 nel 1970 al Mugello. Insomma, la Gm aveva un buon ricordo di me e quindi mi vendette la Lotus. In Inghilterra fui però accolto dai pregiudizi. Un quotidiano pubblicò una vignetta: “Ecco il nuovo proprietario della Lotus” e il disegno di un mafioso siciliano, con la lupara e la coppola. Si dovettero ricredere presto: fino ad allora la fabbrica perdeva 30 milioni di sterline ma noi l’abbiamo fatta guadagnare già dal primo anno, senza licenziare nessuno dei 1.450 dipendenti, che infatti ci adoravano. Altro che mafiosi».
Quale fu la chiave del successo?
«Il rinnovo della gamma, con il lancio della Elise, che rispecchiava perfettamente la filosofia dello scomparso fondatore Colin Chapman: per lui la leggerezza era l’arma segreta per ottenere prestazioni elevate. La Elise pesava solo 700 chili e bastò quindi montare un motore Rover da 120 cavalli per ottenere prestazioni eccezionali ad un prezzo accessibile. Fu un successo strepitoso».
Come scelse il nome Elise?
«I nomi delle Lotus iniziavano tutti con la “e”: Elan, Elite, Esprit.. E mia nipote si chiamava Elisa. Alla presentazione, togliemmo il telone dall’auto e nell’abitacolo c’era Elisa, che aveva due anni. Indossava la maglietta con la scritta «I’m Elise». Al salone, quel giorno, ne parlavano tutti».
Elisa (siede accanto al nonno), lei si ricorda di quel giorno?
«No, ero piccola. Però ho un ricordo dei preparativi fatti per farmi stare sotto un telo senza preoccuparmi: a casa i miei mi avevano abituata per giorni a stare sotto un lenzuolo. Era diventato un gioco. E poi ricordo che, quando mi chiedevamo come mi chiamassi, io rispondevo: Elisa Lotus!».
Romano Artioli, quando cedette la Lotus?
«Quasi subito, per ripianare le perdite legate all’insolvenza della Bugatti. Stipendiai tutti i 220 dipendenti di Campogalliano sino all’ultimo mese di lavoro».
È vero che la prima Tesla, oggi marchio di grande successo di proprietà di Elon Musk, venne costruita sulla base di una Lotus Elise?
«Sì, la Tesla Roadster, prodotta dal 2008 al 2012, era costruita sul pianale della Lotus Elise. Negli Usa poi la Tesla, fondata pochi anni prima, installava il motore elettrico su quel pianale».
Oggi l’elettrico è al centro di una rivoluzione, finora incompiuta, nel mondo dell’auto. Cosa pensa dello stop alla produzione di motori termici entro il 2035 deciso dall’Unione Europea?
«Lo trovo assurdo: l’elettrico ha molti limiti, soprattutto per i tempi di ricarica e per il prezzo iniziale. Non mi sembra giusto voler imporre a tutti questa tecnologia e nemmeno che lo Stato, con i soldi pubblici, offra 11mila euro di contributo a chi vuole acquistare un’auto elettrica, andando oltretutto a finanziare, principalmente, l’industria cinese. È un autogol da parte dell’Europa, che dovrebbe rivedere questa decisione. Per ridurre l’inquinamento delle auto sono già stati fatti passi fa gigante. Per il futuro ci sarebbero diverse valide alternative all’elettrico, dai biocarburanti al metano. Nel 1994 abbiamo fatto il record mondiale di velocità proprio con una EB 110 Gt che, grazie al metano, aveva 90 cavalli in più: raggiunse i 344,7 km/h».