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 2025  ottobre 23 Giovedì calendario

Intervista a Heston Blumenthal

«Non ho un disturbo bipolare, sono bipolare. Fa parte del mio Dna. Mi chiedo come io sia riuscito a sopravvivere per 57 anni prima di scoprirlo». La sliding door nella vita di Heston Blumenthal, classe 1966, chef britannico pluripremiato per il suo talento visionario al ristorante «The Fat Duck» di Bray, a un’ora da Londra, tre stelle Michelin dal 2004 (con un’interruzione di un anno, nel 2016, per una ristrutturazione), si è aperta nel gennaio 2024 in modo brutale. 
Sua moglie, Melanie Ceysson, lo fa ricoverare con un trattamento sanitario obbligatorio dopo mesi di allucinazioni, pensieri suicidi e manie di persecuzione. «È stata costretta, mi ha salvato la vita», commenta Blumenthal a quasi due anni di distanza, dopo aver parlato apertamente sui media della sua condizione, essere diventato un paladino della tutela della salute mentale e il protagonista di un documentario della Bbc, My life with bipolar. Ma la verità è che da allora è cambiato tutto, dentro e fuori di lui. 
Come si sente oggi, chef? 
«Beh, ho messo su parecchio peso per colpa dei farmaci. Infatti sto prendendo il Mounjaro per dimagrire».
È per questo che al «The Fat Duck» ha creato un menu a porzioni ridotte?
«Sì, ho pensato che sempre più persone assumono l’Ozempic e i suoi parenti, e che questa tendenza potrebbe distruggere la ristorazione. E allora ho creato una degustazione a porzioni ridotte del 30 per cento, che ho chiamato Mindful Eating».
Peso a parte, come si sente?
«Se prima avevo dei picchi che mi portavano euforia e creatività seguiti da dei down fortissimi, adesso le medicine mi hanno stabilizzato. Mi sento meno brillante, parlo cinque volte più lento, e mi manca un po’ quella follia, quell’energia... ma se non altro nei due mesi in cui sono stato chiuso in ospedale contro la mia volontà ho avuto modo di ripensare alla mia vita. E oggi riesco a parlare di me in un modo impensabile per il vecchio Heston». 
Per esempio? 
«Riesco a dire che sono stato bravo. Che ho davvero cambiato il modo in cui si è cucinato negli ultimi tre decenni. Che i miei piatti iconici, con qualche piccolo aggiustamento, sono ancora attuali. Una volta mi distruggevo e basta, non ero mai contento». 
Però «question everything», mettere in discussione tutto, è sempre stato il suo motto in cucina. 
«Lo è ancora, e consiglierei di applicarlo anche ai giovani chef: è stato dubitando di quello che pensavo di sapere che ho cominciato a fare esperimenti. Tutto è partito da una bistecca: ero convinto che rosolarla fosse la cosa migliore, invece nel libro On food and cooking di Harold McGee lessi che così si perdevano i succhi della carne. Da allora cominciai a farmi domande su tutto. Ma questo non vuol dire tormentarsi: è giusto, ogni tanto, riconoscersi dei traguardi». 
Ne ha appena raggiunto uno importante: i trent’anni del «The Fat Duck», aperto il 16 agosto 1995. 
«Era un pub vecchio di 500 anni, così mal messo che quando siamo entrati noi la gente pensava fosse un ristorante cinese. Una sera c’eravamo io, il lavapiatti e due persone in sala. Il forno era molto vecchio, funzionava con il gas. A un certo punto sentiamo un botto, era esploso tutto: io sono finito contro il muro, con la faccia bruciata. Sarei dovuto andare in ospedale ma avevamo 12 ospiti, quindi mi sono messo dei sacchi di verdura congelata in faccia e ho fatto cucinare il lavapiatti, spiegandogli cosa fare». 
Perché ha scelto di diventare chef? 
«Merito di un viaggio che feci con i miei genitori e mia sorella quando avevo 15 anni. In Inghilterra all’epoca il cibo era terribile, mio padre ci portò in Provenza al ristorante “Oustau de Baumanière”, al tempo un tre stelle Michelin. Ricordo come se fosse oggi il carrello dei formaggi grande come un carro, la salsa di aragosta versata nel soufflé, il cosciotto d’agnello tagliato al tavolo, il canto dei grilli che riempiva l’aria, il profumo della lavanda, i passi del personale di servizio che scricchiolavano sul pavimento. È come se fossi caduto in una tana di coniglio, all’improvviso mi sono detto: voglio cucinare, voglio diventare uno chef. Ho iniziato a comprare libri di cucina, a tradurli dal francese all’inglese parola per parola, a studiare». 
Che lavoro faceva all’epoca? 
«Di tutto, dal cameraman al venditore di fotocopiatrici. Risparmiavo soldi per mesi per poi spenderli in due settimane in Francia a visitare macellai, pescivendoli, orticoltori, viticoltori, ristoratori. Volevo i riferimenti migliori per capire le materie prime». 
Le prime esperienze in cucina? 
«Non avendo alcuna formazione gli chef cestinavano il mio cv. L’unico che mi prese fu Raymond Blanc al Le Manoir aux Quat’Saisons, nell’Oxfordshire. Ma durò pochissimo, una settimana: uno della brigata mi bullizzò, io gli diedi un pugno e me ne andai». 
Autodidatta, quindi. 
«Totalmente: già a 18 anni passavo il mio tempo a confrontare le ricette dei libri di cucina francese. Mi ero preso una fissa per il gelato, perché sin da bambino ne mangiavo uno, siciliano, con mia nonna e mia sorella. In quegli anni avrò studiato oltre 60 versioni di gelato alla vaniglia: è stata questa mania a portarmi, nel 1997, a inventare uno dei piatti che mi hanno cambiato la vita, il gelato di granchio». 
Ma il primo piatto lo ha ideato nel 1992. 
«Sì, quando non avevo ancora un ristorante: erano le patatine fritte in tripla cottura, prima sbollentate, poi fritte, poi abbattute e rifritte. Ero ossessionato anche qui, volevo la patatina perfetta. Le ho subito messe in carta quando ho aperto The Fat Duck, che agli inizi in pratica era una brasserie francese». 
Poi divenne un tempio della cucina molecolare. 
«Sì, anche se io l’ho ribattezzata multisensoriale perché ho sempre studiato l’influenza dei sensi nella percezione del cibo». 
Un esempio? 
«Con l’università del Sussex abbiamo provato a fare una mousse gelata di salmone. Se la chiamavamo così le persone avevano un certo tipo di reazione. Se invece la chiamavamo “gelato al salmone” le persone sentivano subito più sapidità, perché lo scarto tra il gusto dolce normalmente associato al gelato e l’effettivo sapore ne influenzava la percezione. Gli stessi alimenti sono condizionati dall’energia intorno a loro: se si fa fermentare il riso in un contenitore pieno d’acqua guardandolo con odio darà un liquido nero, se lo si ignora marcirà, se lo si guarda con amore saprà di miele. È tutto documentato. Oggi sto lavorando su come l’acqua abbia memoria e possa cambiare la sua struttura». 

Fa ancora una cucina molecolare al ristorante, anche se pare non andare più di moda? 
«Sì, ma di fatto la cucina è molecolare, dipende con che occhio la si guarda: se si tengono in considerazione gli aspetti più piccoli, le trasformazioni base, la cucina è sempre molecolare. Se uno chef passa il tempo a chiedersi: perché farine diverse hanno effetti diversi sulla pizza? Perché il bianco dell’uovo cuoce prima dell’albume? E interviene su quei passaggi, li studia, li comprende, fa cucina molecolare». 
Oggi si discute tanto di leadership nei ristoranti. Da chef, come si comporta con la brigata? 
«Ho urlato una sola volta in faccia a un ragazzo. Continuava a stracuocere un rene di vitello. Poi ho realizzato che la colpa era mia, perché lo avevo scelto anche se non era adatto, perché gli avevo dato un compito che non sapeva fare, o perché non gli avevo insegnato abbastanza. Da allora non ho mai più gridato contro qualcuno». 
Tanti ragazzi non vogliono più fare il suo lavoro. Cosa direbbe a un giovane appassionato di cucina? 
«Che è un lavoro bellissimo se fatto con consapevolezza: la cucina è l’unica materia che comprende tutte le altre, fisica, biologia, chimica, matematica, geografia, lingue... Ed è multisensoriale: allo stesso tempo si usano le mani, il naso, gli occhi, le orecchie. Bisogna studiare bene i fondamentali per poter poi rompere le regole con creatività. Se lo si fa con questo approccio è un lavoro magico, se lo si fa in modo meccanico, solo per soldi, meglio cambiare». 
Un errore che non rifarebbe? 
«Ho passato quattro anni a cercare di fare lo zucchero filato salato. Avrei dovuto rinunciare dopo uno». 

Nel 1999 prese la prima stella, nel 2002 la seconda, nel 2004 la terza. Nel 2005 fu primo nella classifica World’s 50 Best Restaurants. Che anni sono stati? 
«Velocissimi: mi svegliavo alle 5 del mattino e rientravo la notte alle 2. All’epoca ero sposato con tre bambini, che praticamente non ho mai visto. Io e la mia ex moglie eravamo diventati una coppia funzionale: io lavoravo, lei gestiva la casa.
Ho fatto questa vita per tantissimi anni, ero un criceto che correva nella ruota, evidentemente aiutato dalla mia condizione bipolare. Anche se questo l’ho scoperto solo di recente». 
Nel 2009 500 persone si intossicarono nel suo ristorante a causa del norovirus presente nelle ostriche. Fu un caso. 
«No comment». 
Torniamo a gennaio 2024: il suo ricovero forzato. 
«Ero arrivato a una soglia in cui ero pericoloso per le persone che mi volevano bene. Non tanto dal punto di vista fisico, ma psicologico: avevo pensieri suicidi continui, ero ingestibile. Non si riusciva ad avere una conversazione con me. In ospedale mi hanno detto che mi mancavano non più di tre giorni per morire: il mio sistema endocrino era completamente fuori controllo». 
Perché ha deciso di dire che è bipolare? 
«Perché ho visto quanta sofferenza causa questa condizione e ho deciso di sfruttare il palcoscenico che ho per sensibilizzare il pubblico. Anche perché i numeri sono enormi: si parla di 1,3 milioni di persone solo nel Regno Unito, ma saranno molte di più, forse 5 milioni.
Stanno malissimo, vogliono uccidersi, non sanno con chi parlare. Se si riconoscono nella mia storia possono sentirsi meno sole, e vale anche per chi vive con loro». 
Sua moglie, Melanie, era convinta che lei non le avrebbe più parlato dopo il Tso. 
«Non mi è mai passato per la testa, so che mi ha salvato. Ci siamo conosciuti appena quattro anni fa, lei era la responsabile comunicazione di un hotel in una località sciistica. Ci siamo incontrati al bar e ci siamo messi a parlare di fisica teorica. Molto sexy come conversazione. Mi sono innamorato di lei praticamente subito, quando quella sera mi ha tirato via gli occhiali per pulirli. Non sapevo come ci si potesse sentire a essere amati. Così, nelle piccole cose». 

Qual è la più grande differenza nella sua vita pre e post diagnosi? 
«Ci ho pensato molto. Sono sicuramente più calmo, anche se ho ancora pensieri suicidi, ma non concreti. Credo che il principale cambiamento stia nel fatto che prima non avevo paura di niente. Quando ero negli stati di eccitazione maniacale, a mille all’ora, andavo sempre avanti. Adesso invece mi chiedo che cosa può succedere se qualcosa va storto, ho l’ansia». 
E come la gestisce? 
«Penso alla frase che ho trovato sull’antico caminetto dell’ “Hinds Head”, l’altro pub (stellato, ndr) che gestisco qui a Bray. Recita così: “La Paura bussò alla porta. La Fiducia andò ad aprire, e fuori non trovò nessuno”».