Corriere della Sera, 23 ottobre 2025
Intervista a Laura Valente
Ha tradotto la Costituzione in napoletano con gli scugnizzi dell’Albergo dei Poveri. Ha riaperto un faro borbonico chiuso da decenni e, all’alba, ci ha fatto suonare i mandolini, col pubblico in fila già dalle quattro del mattino. Ha creato il Museo Caruso e ci ha messo il karaoke per i ragazzi. Ha preso in mano il Premio Positano di Léonide Massine e Rudolph Nureyev e l’ha fatto convivere con breakdance e hip hop. Ha portato i talk show di Casa Corriere a Napoli anche nei monasteri di clausura. E, in pandemia, mentre i genitori tornavano al lavoro ma i nidi restavano chiusi, ha aperto il Museo Madre ai bambini. Laura Valente, milanese di nascita, newyorkese di studi, emiliana quando si tratta di fare i tortellini per i tre figli, napoletana per scelta, è una pioniera convinta che la cultura debba tenere insieme classico e popolare, istituzioni e periferie, maestri e invisibili. A marzo, riceverà il Premio Callas a New York. Intanto, guida le celebrazioni per i 2.500 anni di Napoli. E proprio per la sua capacità di far dialogare mondi lontani, istituzioni e artisti, politica e società civile, musei e comunità fragili, il Giornale dell’Arte l’ha appena inserita tra le Power 100, le cento personalità più influenti dell’arte in Italia. Lei: Il giornale dell’arte capisce? Io vengo dalle arti performative e il fatto che oggi per “arte” si intendano tante cose diverse mi commuove… Ho 60 anni e, quando ho iniziato, c’erano le scaffalature di genere: musica classica, lirica, arte contemporanea… Oggi, tutto si contamina: è la grammatica del presente».
Le sue arti performative di partenza quali sono?
«Pianoforte e danza. Mio padre era musicista, mi ha messo al piano prima che in bici. A casa, si cantava e si ballava sempre. Mamma metteva My Way e io e mio fratello ballavamo, poi arrivava nonna e diceva: Frank Sinatra è da vecchi, mettiamo Bob Marley. Sono cresciuta in un appartamento popolare, piccolissimo, dove però c’erano tantissimi libri, spartiti, dischi. Ho frequentato il Berchet di Milano, liceo classico d’eccellenza, fra compagni di estrazione diversa dalla mia. Dopo, per intenderci, i miei compagni di università facevano stage a Parigi e io, per pagarmi gli studi, pulivo i bagni d’albergo, ma quella fatica mi ha insegnato che la cultura non è un privilegio: è una fame».
Quando ha intuito la vocazione da organizzatrice culturale?
«In America: la prima volta che sono entrata alla Juilliard School, mi sembrava di stare dentro Saranno famosi, con Leroy che ballava nei corridoi e, alla New York University, ho studiato management delle imprese culturali e ho capito che, per cambiare le cose, servono strumenti progettuali e stare nella stanza dei bottoni. Lì ho imparato progettualità e visione di lungo periodo ed è grazie a questo metodo che, per esempio, ho potuto realizzare il Museo Caruso al Palazzo Reale di Napoli: digitale, multimediale, dove i ragazzi si divertono magari col karaoke di ’O sole mio, ma ascoltano anche l’intermezzo di Cavalleria rusticana».
Che ci fa una milanese a Napoli?
«Ci sono arrivata per amore 36 anni fa. I miei tre figli, una adottata, sono napoletani. Napoli mi ha dato la possibilità di incidere, fare la differenza. Alla Scala, dove sono stata capo ufficio stampa, sei un anello di una catena perfetta, al San Carlo invece, si costruivano cose nuove. Ho ricoperto ruoli dalla comunicazione alla direzione, ho fatto il loro museo, mostre, la responsabile editoriale...».
Come sta interpretando le celebrazioni per i 2.500 anni della città?
«Non solo eventi celebrativi, ma un viaggio con la cittadinanza: progetti che seminano futuro e consentono accesso alla cultura per tutti, una visione che il sindaco Gaetano Manfredi ha sposato e non era scontato. Ho imparato alla Scala, con Riccardo Muti e Carlo Fontana, che la cultura non è estetica ma etica: vendere più biglietti non è importante come costruire il senso di comunità. Napoli 2500 è un anno intero di progetti. Abbiamo aperto portando al San Carlo Napoli milionaria! di Eduardo De Filippo: per alcuni, una profanazione e una follia, perché quello spettacolo puoi vederlo anche su YouTube, ma quella serata ha permesso a persone che non avevano mai varcato quella soglia di potersi sentire a casa propria. Recitavano le battute con gli attori, ridevano, è stato stupendo. E abbiamo fatto danzare migliaia di persone in Piazza Plebiscito, e restituito alla città il Faro Borbonico, ho ancora la cervicale per i mesi di trattative fra Marina Militare, Ministero della Difesa, autorità portuali... Dal faro, sono partiti tanti migranti mai più tornati. Non volevamo fare rumore, ma memoria. Beppe Barra ha cantato La Gatta Cenerentola con Vinicio Capossela; Eugenio Bennato ha composto un inno a San Gennaro... È stato un rito di memoria che spero si ripeta ogni anno».
Per il Museo Madre, nel 2019, la rivista Artribune l’ha eletta «Miglior Presidente di Museo in Italia».
«È un museo che ho amato. In pandemia, quando tutto era chiuso, l’abbiamo aperto a duemila famiglie: bimbi di ogni quartiere, tutti con la stessa maglietta, lo stesso cestino per mangiare, laboratori gratuiti di creatività. Era un museo che diventava casa loro. La cultura è questo: inclusione, ascensore sociale».
Lo stesso spirito che porta nell’Albergo dei Poveri con «Futuro Quotidiano»?
«Un luogo meraviglioso e una ferita aperta. Nato coi Borbone per accogliere i più fragili, era abbandonato all’illegalità. Mentre lo ristrutturano, da un anno, coordino laboratori gratuiti di letteratura, teatro, musica, iniziative civiche. Coinvolgiamo ragazzi che la scuola ha perso. Non puoi dire a un ragazzino che vive per strada “leggi un libro”: devi condurlo per mano in un luogo dove la cultura è normale. Perciò con questi ragazzi abbiamo tradotto la Costituzione in napoletano. Di Teresa Mattei, la più giovane costituente, uno mi ha detto: è forte chella là. Ne parlava come di un’amica».
Lei ha diretto festival, premi, musei. A Positano ha raccolto l’eredità di Massine e Nureyev.
«Il Premio Positano è il più antico premio di danza del mondo e io ho voluto aprirlo al mondo e alla contemporaneità. Portare Dada Masilo, una danzatrice nera, calva, cresciuta in un quartiere povero sudafricano, il corpo non adatto balletto romantico ottocentesco, e vederla fare The Swan, in una coreografia da villaggio africano anziché cittadino è l’idea che ho di arte come ascensore sociale».
Fra i grandi che ha incontrato, che altre immagini le vengono in mente?
«Pina Bausch, ballerina visionaria, che al San Carlo entrava con la sigaretta accesa e nessuno osava dirle nulla. Daniel Barenboim, a Ravello con orchestrali palestinesi e israeliani seduti vicini, che scherza e dice: per la prima volta, non hanno un’arma in mano, ma strumenti per parlarsi. Enzo Biagi che, quando da ragazza ero programmista regista del suo Linea Diretta, m’insegnò la “sottrazione”: da dieci righe me ne lasciò tre, insegnandomi a scrivere con pudore».
Cos’è Casa Corriere per Napoli e cos’è per lei?
«Fu Antonio Polito, all’epoca direttore del Corriere del Mezzogiorno, a chiedermi di immaginare un festival del Corriere. Mi tornò in mente un evento del direttore Gaetano Afeltra a cui avevo assistito, da studentessa, a Milano: portava il giornale fuori dalla redazione e lo faceva parlare con la città. Da spettatrice, mi aveva colpito tanto. E così, con Casa Corriere, abbiamo riaperto luoghi chiusi– dai Girolamini al Monastero delle Trentatré – riempiendoli di giornalisti, artisti, lettori. Ogni anno, apriamo luoghi simbolo affrontando un tema diverso con la città».
Come è possibile sopravvivere, da consulente, a tre ministri diversi: Dario Franceschini, Gennaro Sangiuliano e Alessandro Giuli?
«Con progetti concreti. Io sono una consulente tecnica e rispondo dei risultati».
Un consiglio a una ragazza che sogna di diventare «capitana» della cultura?
«Viaggiare, viaggiare, viaggiare. Vedere, vedere, vedere. Scegliere. La cosa in cui si annida il futuro la devi stanare con la tua sensibilità».
Come ha conciliato la carriera con tre figli?
«Con fatica, a volte senza respiro. I miei affetti sono l’architrave della mia vita. E mia figlia adottiva, col suo autismo, mi ha insegnato a sentire le cose in modo diverso. A volte, non bastano le ore della notte, a volte dici: quante cose ho lasciato indietro. Ma poi ti giri e vedi che ce l’hai fatta, nel senso che ce l’hai fatta a essere fedele all’ideale della tua gioventù».