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 2025  ottobre 23 Giovedì calendario

«Una persona che ha il cancro non deve preoccuparsi anche dei costi per la cura. E ci vuole più prevenzione»

Alberto Mantovani, medico, scienziato, presidente di Fondazione Humanitas per la Ricerca, l’immunologo italiano più citato nella letteratura scientifica internazionale: dietro il suo impegno nella sanità c’è la responsabilità sociale, il volontariato nella periferia del Gratosoglio, la missione umanitaria in Africa, l’amore per Milano e l’Italia. Dietro le sue ricerche c’è un messaggio: la speranza e la fiducia nel futuro, che resiste anche nei momenti difficili.
Professore, da che cosa le viene questa fiducia?
«Dalle luci del mio laboratorio accese la sera. Vuol dire che c’è ancora gente che lavora, che fa ricerca con passione e intelligenza per dare ad altri una speranza».

Basta questo per essere più ottimisti in una società che sembra smarrita?
«Aggiunga il Nobel per la Chimica a Omar Yaghy. Rifugiato palestinese, cresciuto in una famiglia poverissima, originaria di Gaza: vivevano in dodici in una stanza, con il bestiame. È riuscito a studiare, a laurearsi, a diventare ricercatore... Oggi può dire che la scienza è la più grande forza generatrice di uguaglianza nel mondo».
Un messaggio controcorrente in un mondo incattivito e diviso...
«Penso che nella scienza ci sia un’opportunità per tutti. Ma bisogna studiare, se non c’è impegno e fatica non ci sono risultati. Oggi vedo giovani motivati, che hanno sogni e passioni. Non bisogna aver paura di sognare. La mia vita scientifica è stata attraversata dai sogni, qualcuno si è realizzato, altri sono in corso».
A 77 anni qual è la nuova avventura professionale?
«Lavoro per decodificare la parte oscura del genoma, quel che resta da scoprire per individuare geni e molecole del sistema immunitario che hanno la potenzialità di trasformarsi in diagnosi e cura».
È diventato medico per passione, per vocazione o per scelta?
«Per caso. Liceo classico Manzoni a Milano. Sezione D. Appena uscito ero convinto di iscrivermi a Fisica. Ne ero innamorato. Poi d’estate ho fatto volontariato in Inghilterra. Sono finito in un ospedale. Lì ho deciso di fare Medicina».

E perché ha scelto immunologia e oncologia?
«Perché mi sono innamorato».
C’era la sua futura moglie in quell’ospedale?
«Anche di lei sono innamoratissimo, ma questa è un’altra storia. A determinare la mia scelta è stata la complessità del sistema immunitario e il sogno di usare le armi dell’immunità contro il cancro».

Una sfida da vincere.
«La lotta al cancro è una scalata continua. Io sono un modesto alpinista e le cime sono una sfida. Con la ricerca sei in cordata davanti a una cima da scalare. Ma non ce n’è una sola, le cime sono tante».
Ogni volta si ricomincia?
«Dopo un successo comincia subito un’altra scalata, ma l’insuccesso è una dimensione della ricerca. L’immunologia è stata una conquista e per fortuna oggi possiamo contare i successi: nella lotta al cancro abbiamo qualche speranza in più».
Che cosa ha cambiato l’immunologia nella lotta al cancro?
«Cinquant’anni fa si è scoperto un sistema di difesa contro le cellule malate. Ricorda lo slogan del ’68, la fantasia al potere? L’immunologia è stata questo. Un trionfo della ricerca che ha cambiato il mondo, la diagnostica, la terapia...».
Con l’utilizzo degli anticorpi monoclonali?
«Li usiamo per dirigere i nuovi farmaci, riescono a vedere le molecole sulle cellule tumorali, sono specializzati nel colpirle, nel bacio della morte...».
Un sistema difensivo di altissima precisione…
«Il sistema immunitario è come un’orchestra: tutto deve essere armonico per aiutare il nostro apparato di difesa nella guerra quotidiana contro agenti microbici. Ma noi non conosciamo tutti gli orchestrali e gli strumenti: a volte il sistema immunitario sbaglia. È qui che la ricerca ha trovato il modo di correggere l’errore e rendere la cura possibile».
La cura è per tutti, ma nella sanità crescono le disuguaglianze.
«E questo è motivo di sofferenza. Vorrei vivere in un Paese in cui una persona si preoccupa di avere un cancro, ma non si preoccupa dei costi che possono essere altissimi per la cura necessaria contro il cancro».
Eppure esiste un servizio sanitario nazionale.
«La sua sostenibilità è un tema complesso. Fatto di risorse. Di percentuale di spesa rispetto al Pil. Di efficienza. Dobbiamo essere efficienti per i costi delle nuove terapie e per l’invecchiamento della popolazione. Questo significa meno esami inutili e appropriatezza della cura».
Che cosa si potrebbe fare per aiutare medici e ricercatori?
«Ridurre il carico burocratico. Per chi fa ricerca la burocrazia porta via almeno il 40 per cento del tempo. Una follia. Io dico ai politici: toglieteci i sassi dallo zaino che ci impediscono di scalare».
C’è una doppia cittadinanza nella salute?
«Le faccio un esempio: il papilloma virus. È causa di cancro, ma abbiamo il vaccino che lo può debellare. Eppure la copertura in Italia è al 70 per cento al Nord e al 30 per cento al Sud. Lo squilibrio è ancora più evidente nel mondo: migliaia di donne soffrono e muoiono per cancro della cervice, per le donne africane è questa la prima causa di morte. Eppure c’è il vaccino...».
Mancano le risorse o manca la prevenzione?
«Poche risorse e scarsa capacità di fare prevenzione. Pensi che in Italia eravamo tra i più virtuosi per sovrappeso e obesità. Oggi siamo tra i peggiori, dopo la Grecia. Se non facciamo qualcosa il carico diventerà intollerabile per il sistema sanitario».
Lei parla spesso di bellezza della cura e della ricerca. L’arte è entrata in Humanitas con immagini di quadri famosi, da Brera, dall’Accademia Carrara, dal Poldi Pezzoli. Che cosa lega medicina e creazione artistica?
«C’è una visione estetica della ricerca scientifica, dal laboratorio che analizza i dati alla riparazione di un danno al sistema immunitario. Tutto deve creare un’armonia, in questo arte e medicina si avvicinano».
Fuori di metafora, quali anticorpi servirebbero in un mondo malato?
«Io penso che ci dovremmo vaccinare. In tutti i sensi. Vaccinare contro l’ignoranza, contro il cinismo e l’indifferenza. Dovremmo far capire che siamo parte di una comunità. In questo senso il volontariato è come un vaccino. Non per creare l’immunità di gregge, perché non siamo pecore. Siamo una comunità consapevole che deve prendersi cura dei malati e proteggere i più fragili».