Corriere della Sera, 23 ottobre 2025
Mollicone, in aula dopo 25 anni. Richiesta un’altra perizia. Il nodo del teste mai sentito
«Uno squarcio di verità e giustizia aperto dalla Cassazione», lo definisce il pg della Corte d’appello. Il nuovo processo per la morte di Serena Mollicone, a quasi un quarto di secolo dal delitto di Arce, riparte da qui, dalla indicazione data dai supremi giudici di riesaminare gli elementi raccolti dall’accusa contro la famiglia del maresciallo Franco Mottola e dall’ammissione di nuove testimonianze, potenzialmente decisive per ribaltare le assoluzioni in primo e secondo grado. «Dimostreremo il depistaggio che spiega i venticinque anni trascorsi dal delitto», dice ancora l’accusa.
L’Appello bis sarà un percorso lungo e complesso, come preannunciato dai toni nella prima udienza di ieri. La Corte si è riservata di valutare l’ammissione di una sessantina di testi e di disporre una nuova perizia sulla porta degli alloggi annessi alla stazione dei carabinieri del paesino del Frusinate, dove la testa della 18enne sarebbe stata sbattuta con forza l’1 giugno 2001 dal figlio del maresciallo, Marco. Tramortita, inerme, Serena sarebbe stata legata e imbavagliata dal militare e da sua moglie Anna Maria, e lasciata morire nel boschetto di Fonte Cupa dove venne ritrovata due giorni dopo. Mottola padre avrebbe ordito il piano e sviato le indagini. L’accusa per tutti è concorso in omicidio e occultamento di cadavere. Definitiva invece l’assoluzione dei due carabinieri inizialmente coinvolti. Quella porta danneggiata è stata sufficiente a riaprire il caso 15 anni dopo ma non a condannare i Mottola.
I consulenti dell’accusa, tra cui la direttrice del Labanof, Cristina Cattaneo, hanno ricostruito la compatibilità di quella crepa con la forma della tempia della vittima. La difesa sostiene che quel danno fu fatto da un pugno del maresciallo o suo figlio in una lite familiare e la nuova perizia deve definitivamente escludere questa ipotesi. Ma il vero snodo sarà la testimonianza del luogotenente Gabriele Tersigni, che la Cassazione espressamente indica come una lacuna da colmare nei processi svolti finora. È il carabiniere a cui il collega Santino Tuzi, poi suicidatosi nel 2008 nei giorni in cui veniva convocato dal pm, aveva confidato di aver visto Serena in caserma quel venerdì mattina e di non averla più vista uscire. Tra rivelazioni, ritrattazioni e contro ritrattazioni, Tuzi non è stato considerato attendibile ma Tersigni certificherebbe la genuinità delle sue parole. Finora non è mai stato ammesso a testimoniare perché mancò di verbalizzare quelle parole nella sua veste di carabiniere. Secondo la Cassazione quella che raccolse fu però una confidenza da amico e quindi utilizzabile in un processo che, va detto, resta indiziario e con alcuni punti deboli finora insormontabili: una prova certa sulla quale incardinare la ricostruzione accusatoria.
«Se è vero che il giudice può pronunciare sentenza di condanna solo se l’imputato risulti colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio – scriveva ancora la Suprema Corte superando questa obiezione –, tuttavia è anche vero che lo stesso non può astenersi dal vagliare le eventuali incertezze manifestatesi per verificare se è possibile ricomporle in un quadro coerente». Secondo la sentenza che ha disposto l’Appello bis, «la Corte d’assise d’appello di Roma si è limitata invece ad elencare le incongruenze evidenziate, senza svolgere il passaggio successivo appena menzionato».
«Questi 25 anni hanno pesato molto, soprattutto sulla scomparsa di mio padre Guglielmo (nel 2020, alla vigilia del rinvio a giudizio dei Mottola, ndr), ma noi non ci arrendiamo. Papà ci ha sempre detto di continuare a cercare la verità sulla scomparsa di mia sorella», dice Consuelo, sorella di Serena. «Noi siamo forti della nostra certezza, la completa innocenza dei Mottola. La giustizia in Italia è lenta, ma arriva e per i Mottola è già arrivata due volte con nostra soddisfazione», commenta l’avvocato difensore Francesco Maria Germani.