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 2025  ottobre 22 Mercoledì calendario

Perché dire le parolacce è un atto politico e fa bene (ma finiamola di dire «porca puttana»)

Disclaimer: in questo articolo troverete imprecazioni e parolacce senza asterischi o puntini di sospensione.
Che poi è la stessa premessa contenuta nel libro di Stefania di Doglioli ed Elena Miglietti (e con i contributi di altre autrici): «Male-dette», sottotitolo: «Manuale di imprecazione etica. Sfogarsi con rispetto, maledire con creatività» (Edizioni Capovolte).
Prima impressione: proporre una via per «l’imprecazione etica» è un vero atto di coraggio in questo periodo storico. Ma cosa è venuto in mente alle autrici?
«Partiamo da una certezza: imprecare, anche dire le parolacce fa bene: è sempre stato liberatorio, una scarica di energia, secondo la scienza ha anche un potere analgesico quando si prova un qualche dolore: è dimostrato. Donne e uomini lo fanno con molta più naturalezza rispetto al passato, anche se le donne hanno adottato i modi maschili di imprecare» spiega Stefania Doglioli. «In Italia, poi, con tutte le differenze dialettali, c’è una creatività incredibile di imprecazioni: è anche un mondo divertente da studiare. Ma se andiamo a guardare alle parolacce attuali più comuni, quelle davvero sulla bocca di tutti, da nord a sud, scopriamo che dietro c’è una cultura che abbiamo interiorizzato con tutti i suoi pregiudizi e stereotipi e che continuiamo a perpetrare».
Le parole sono azioniPerché le parole non sono solo parole. «Il linguaggio è il modo in cui rappresentiamo il mondo. La filosofa Judith Butler parla di «potere performativo delle parole», ovvero non si limitano a descrivere la realtà, ma contribuiscono a crearla. E in particolare, gli insulti e il linguaggio d’odio hanno il potere di confermare e normalizzare quel pregiudizio, quella subordinazione sociale indicata in quello che diciamo: nell’offesa sessista, in quella omofoba o razziale o n quella abilista (“demente”, “cretino”). Quasi sempre in modo inconsapevole».
«Puttana» va su tutto
Veniamo subito alla più classica e diffusa delle imprecazioni: «porca puttana». «Porca puttana che traffico», «è andato tutto a puttane». Tra le imprecazioni è lei la più potente e la più soddisfacente, un intercalare che vale per tutte le situazioni: quando ci si taglia un dito affettando il pane, al bar, tra colleghi o amici per descrivere un lavoro fatto male («che puttanata»), tra gli scranni del Parlamento, nei film, nelle canzoni rap. «Puttana» è un jolly: onnipresente, quindi, normalizzato. La usiamo così tanto che non la sentiamo più: è rumore di fondo. «Quando ho iniziato a lavorarci sopra non ero consapevole di quello che si portava dietro. E, come me, la maggior parte delle persone che conosco», osserva Doglioli.
«Puttana» è una delle parole più violente del vocabolario italiano e, forse per questo, una delle più efficaci. Perché è un marchio elastico: tiene a bada tutte le donne. Ma non è necessario avere la disinvoltura sessuale di una sex worker per essere etichettata come puttana. Quante volte la sentiamo dire o la leggiamo sui social, magari nelle sue varianti «troia» o «zoccola», per insultare una donna? Se poi dico «figlio di puttana» a qualcuno insulto sua madre – ovvero tutte le madri -, mica lui.
Racconta ancora Doglioli: «La mia prima esperienza della forza di questa parola l’ho sperimentata molto presto. In prima liceo, quella che era la mia amica del cuore, si sentì tradita perché stavo vivendo una prima storia d’amore, così scrisse sui muri dei portici davanti alla scuola “Stefania Doglioli Puttana”. Mi alzai all’alba per andare a cancellare la scritta senza che nessuno mi vedesse. Giuro che il senso di vergogna che ho provato mi è rimasto appiccicato addosso a lungo e la rabbia che l’ha sostituito me la tengo cara».
Insomma, è molto di più di un insulto sessista: «È terrorismo linguistico, “puttana” è uno strumento di potere travestito da parolaccia. E ogni volta che ci scappa quel “porca puttana” magari perché abbiamo perso l’autobus, noi ribadiamo inconsapevolmente la volontà di controllo sul corpo e sulla libertà delle donne». Ovvero la subordinazione patriarcale delle donne. Tutte.
Altro che forza trasgressiva dell’imprecazione! Confermiamo la più classica delle forme di potere.

Che insulti troviamo nelle serie tv per teen?
E il sistema migliore per ribadire uno stereotipo e farlo passare a ripetizione dai media. «Abbiamo notato che nei doppiaggi italiani dei film e delle serie tv in lingua inglese, spesso, vengono tradotte con “porca puttana” anche imprecazioni del tutto diverse come Holy shit: letteralmente “santa merda” – racconta ancora Doglioli – Il massimo mi è capitato quando ho sentito Wonder Woman, l’eroina della serie tv per teen ager, esclamare “porca puttana!”. Possibile che per esprimere frustrazione non si trovi niente di meglio? Ma non andava bene il classico “merda”? Nelle serie tv e nei film per teen, le imprecazioni sono quasi esclusivamente di tipo sessista. Termini apertamente razzisti o omofobi sono ormai censurati, ma quelli sessisti no. E attenzione, quando si parla di teen-ager le parolacce non sono mai solo parolacce ma mattoni con cui costruiamo, giorno dopo giorno, una cultura che normalizza la violenza verbale contro le donne».
Purtroppo sappiamo le dimensioni del fenomeno: in Italia il 59% degli insulti online è di natura misogina. Le donne sono il principale bersaglio del linguaggio d’odio e i casi recenti dei siti sessisti come “mia moglie” o “phica” lo dimostrano ma sono solo la parte dell’iceberg emerso. Considerato tutto questo, fare uno sforzo per scrivere o doppiare con consapevolezza tutto ciò che è entertainment per i giovanissimi, musica, serie tv o videogiochi, sarebbe il minimo.
Bestemmie e Gen Z
E poi c’è il tema delle bestemmie. La generazione Zeta le usa con disinvoltura, molto più delle generazioni precedenti. E se in tv capita ancora di essere cacciati da un programma se la si dice in diretta, è facile scorgere la bestemmia nel labiale di molti sportivi (il tennista Musetti ne sa qualcosa). «Quanti calciatori entrano in campo facendosi il segno della croce e poi bestemmiano per un’azione mancata – osserva Elena Miglietti – Urliamo contro il cielo, come canta Ligabue. Perché è al sacro che ci rivolgiamo, da sempre: per chiedere la sua protezione o per maledirlo se non ci è favorevole. I pagani avevano molti dei, e uno poteva insultare quello che aveva aiutato il suo nemico, ma nelle fedi monoteiste ce n’è uno solo». Per la Madonna, ovviamente, vale il discorso sessista di cui sopra e nelle imprecazioni si fa alla madre di Dio tutto quello che si dice di voler fare alle donne. Il bersaglio sono sempre loro. «Con un dettaglio: la Madonna è il simbolo davvero tutte le donne perché non è mai morta, è assunta al cielo, quindi è carne e sangue, contro cui sfogarci».
Certo, tutto il capitolo dei cori da stadio, vere rassegne di insulti sessisti e razzisti (contro gli atleti e le atlete nere per esempio) meriterebbe un lungo discorso a parte. E proprio in questo momento in cui gli inquirenti si dicono preoccupati dell’aumento delle tifoserie violente, non solo nel calcio, diventa utile ribadire che l’odio inizia con le parole e poi si fa azione.
Se “bitch” diventa un emblema
Però se è vero che i ragazzi e le ragazze della generazione Zeta imprecano e bestemmiano con facilità, è vero anche che proprio dal linguaggio giovanile arrivano segnali interessanti, che denotano lo sforzo di andare oltre l’imprecazione che ripete lo stereotipo e recuperare la sua forza trasgressiva, di ribellione all’ordine costituito. È il caso, per esempio, del fenomeno della “resignification”, riappropriazione linguistica di alcune parole che da insulto diventano emblema. È successo, per esempio, con l’inglese bitch, equivalente nel nostro «puttana»: «Artiste hip hop e rock hanno iniziato a usarlo per indicare una donna forte, assertiva e indipendente, in contrasto con l’uso misogino del termine» spiega Miglietti. E l’ondata femminista più giovane l’ha fatta propria: la parola usata per denigrare diventa emblema di orgoglio e indipendenza. In Italia non si può dire che «puttana» abbia subito un processo analogo altrettanto potente, ma molte giovani femministe usano bitch o “cagna” con questo valore». In fondo, non era un lavoro di riappropriazione linguistica anche il vecchio slogan: «Tremate, le streghe son tornate»?
Il bambino e il suo sogno proibito
Ma insomma, come si arriva all’imprecazione etica? Il primo sforzo è rendersi consapevoli di quello che c’è dietro le imprecazioni sessiste e già si comincia a vederle sotto una luce diversa. «Si chiama “lavoro di emersione dello stereotipo”. Detto così sembra una cosa complica, in realtà è incredibilmente semplice e potente – spiega Doglioli – Tempo fa facevo un lavoro di gruppo con i piccoli di una seconda elementare, parlavamo dei mestieri che sognavano di fare da grandi e un bambino, con voce triste mi dice: “io non potrò mai fare il lavoro dei miei sogni”. Subito gli chiedo “e qual è?”. “Il maestro” risponde lui. Al che io gli dico: “Ma lo sai che ci sono anche i maestri maschi oltre alle maestre nelle scuole?” Lui si è illuminato. Aveva visto solo maestre fino a quel momento e pensava che quella fosse la normalità». Il primo passo per poter uscire da una gabbia e riconoscerla per quello che è.
«Piove, governo ladro»
«La Gen Z comincia anche a usare l’ironia per scardinare i codici – osserva Miglietti – Meme come “porco sistema”, “Sporco patriarcato” o “figlio dell’algoritmo” iniziano a sostituire i bersagli consueti e alcuni artisti provano a spostare l’asse emotivo: la parolaccia resta, ma cambia il destinatario». Un po’ come se avessero riscoperto il vecchio «Piove, governo ladro» magari mettendoci su un po’ di carico. È l’inizio di un’imprecazione etica? Si chiedono le autrici. Sicuramente i giovani sono portatori sani di una nuova rabbia che va capita e ascoltata, non repressa. E da loro arrivano gli spunti anche per una trasformazione del linguaggio.
«Non si può più dire niente!»
Cosa rispondiamo, infine, alla più ovvia delle proteste a quello che abbiamo detto fin qui, ovvero, «Non si può più dire niente!»?
La parola alle autrici: «Innanzitutto non confondiamo il linguaggio di odio con la libertà di pensiero. E poi non è vero: noi vogliamo ribadire il diritto a imprecare. Anna Magnani diceva: “Io dico le parolacce ma odio la volgarità”. La parolaccia femminile, poi, è un atto politico: infrange il tabù che vuole la donna silenziosa e contesta le regole del discorso. Il turpiloquio funziona. Emoziona, pure, ma è odio mascherato da rabbia. Non c’è modo di gridare, commuovere, ferire, senza ripetere i secoli di linguaggio patriarcale?
Rivalutiamo «merda!»
Ed ecco tutta la parte finale del libro, molto pratica, divertente anche, dove si concretizza la call to action: esempi di laboratorio linguistico per imparare a imprecare... con stile. Perché imprecazione etica non è un ossimoro provocatorio, ma un invito a una sperimentazione consapevole e liberatoria del linguaggio.
Provando a semplificare, vale la regola del: siate creativi, usate l’infinita varietà che la lingua italiana ci suggerisce ma soprattutto, occhio al bersaglio: non prendetevela con chi non c’entra niente con la vostra rabbia e il vostro disappunto, con le donne, che siamo madri o madonne o con i disabili («cretino», per la cronaca, è un insulto abilista). Piuttosto indirizzatela verso qualcosa che merita la nostra indignazione: la guerra? Perché no. Oppure c’è sempre la solita vecchia «merda», o la «miseria».
E così va a finire che se il tecnico arrivato in redazione per sistemare i termosifoni borbotta un “porca miseria” mentre è intento nel suo lavoro, lo guardiamo con simpatia. Con ammirazione quasi.