Corriere della Sera, 22 ottobre 2025
La lunga pax del dollaro
Negli anni Settanta, nel bel mezzo degli shock petroliferi, economisti e politici progressisti immaginavano una caduta del predominio del dollaro descrivendo cargo navali carichi di «petrodollari» da rimpatriare dall’Europa all’America. Cosa che avrebbe emancipato il mondo dalle ingerenze degli Stati Uniti e del suo capitalismo. In effetti, nel 1971, dopo quasi trent’anni, Nixon annullava la convertibilità dei dollari in oro decisa a Bretton Woods. Poi, nel 1973, il primo shock petrolifero. Eventi conditi da retorica aggressiva. Il segretario al Tesoro di Nixon, John Connally, provocò: «Nostro dollaro, vostro problema». Parlava soprattutto agli europei, e al ministro delle Finanze francese, Valery Giscard d’Estaing, che giudicava l’utilizzo del dollaro, un «privilegio esorbitante» per l’America. Cinquant’anni dopo i cargo navali non sono mai partiti e il dollaro è ancora al centro del 58% delle riserve estere globali, rappresenta il 54% del commercio mondiale e quasi il 90% delle transazioni di cambio.
Il contesto storico è importante perché nei giorni scorsi a Washington, ai margini delle riunioni annuali del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, alcuni immaginifici intellettuali proclamavano – con la fine della Pax americana e con l’Ordine Economico in subbuglio – anche l’imminente fine del «Re dollaro» e della sua «Pax» citando anche l’attuale indebolimento della valuta americana. In effetti, mai come quest’anno i Brics (Brasile, India, Cina Sud Africa), il 40% dell’economia mondiale, guidati da Pechino, hanno offerto alternative concrete, al dollaro e a una leadership occidentale arrugginita. Le Cripto Valute, appoggiate dal Presidente Trump, crescono e l’amministrazione vorrebbe usare lo «Stable Coin» per finanziare l’incontenibile debito americano. La Bce è a sua volta alla ricerca di una valuta digitale e il disimpegno americano dal legame transatlantico, si dice, potrebbe accelerare un decoupling generalizzato. Poi c’è il prezzo dell’oro, al rialzo anche perché le banche centrali stanno cercando di convertire molti dei loro dollari in riserve aurifere. Aggiungiamo l’esplosivo debito americano, oggi attorno al 123% sul Pil ma in forte aumento anche fino al 140% entro il decennio secondo le ultime stime del Fondo.
È lecito dunque preoccuparci, ma associare l’indebolimento della valuta Usa alla fine dell’era della «Pax del dollaro» è troppo. È essenziale distinguere la dinamica congiunturale a medio termine da quella storico/strutturale. Cominciamo dal medio termine. Sul dollaro influiscono tre fattori che in varie forme hanno determinato l’andamento dei rapporti valutari, un fattore puramente tecnico, un fattore macroeconomico e un fattore politico. Sul piano tecnico un dollaro a quota 1,16, come era ieri contro l’euro, può essere considerato più la norma che l’eccezione. Quando l’Euro fu lanciato il primo gennaio del 1999 il suo rapporto col dollaro era guarda caso proprio a quota 1,16. Ci furono un paio d’anni di sfiducia (e di sfida) sull’euro indebolito fino a quota 0,853, poi nel 2002 la svolta, e per dieci anni fra il 2004 e il 2014 il rapporto oscilla tra quota 1,34 a 1,38, con punte fino a quota 1,58 nel luglio del 2008, per la crisi subprime. Nell’aprile del 2015 il dollaro si rafforza e parte un’altra banda di oscillazione decennale, tra 1,04 e 1,08, fino a quota 1,04 del febbraio scorso. Poi il salto, fino a quota 1,18, una decina di giorni fa. Questo per dire che l’attuale livello del rapporto dollaro euro non è poi così straordinario e che, sul piano congiunturale il mercato sta cercando una nuova banda di oscillazione alla luce del nuovo contesto macro/politico. L’inflazione, preoccupa, ma su quello siamo alla finestra per mancanza di dati per la chiusura del governo americano. Sul piano politico, la volatilità tariffaria e l’imminente successione alla Federal Reserve a maggio aggiungono incertezze perché Trump cercherà di imporre diminuzioni dei tassi di interesse accelerando preoccupazioni sul fronte inflazione. Come nei decenni scorsi, la perdita tra il 10 e il 12% del suo valore nei confronti dell’euro dipende da normalissimi fattori macroeconomici. A partire dal debito americano, esplosivo, per gli enormi stimoli fiscali anti Covid di Biden e poi per il «Beautiful Bill» di Trump, che tagliava ulteriormente le tasse senza attaccare la spesa. Complessivamente il debito americano sfiora i 38 triliardi di dollari con un interesse passivo di 1,2 triliardi di dollari all’anno! Sul piano percentuale, il rapporto debito Pil è passato dal 78% del 2019 al 123% attuale con le previsioni Fmi di cui si parlava poco sopra. Questo contro un rapporto debito Pil per l’area euro stimato nell’88%, generalmente stabile nei prossimi anni. In queste condizioni le incertezze a breve sul dollaro sono del tutto giustificate. Niente fine della «Dollar Pax» dunque ma solo un normale riaggiustamento della banda di oscillazione. Anche perché, nonostante le difficoltà nessuna valuta singola è oggi sostituibile al dollaro. Lo dice anche Ken Rogoff nel suo ultimo libro, dedicato alla valuta americana. Aggiungo, nel 2006 Paul Volcker, leggendario presidente della Fed, osservò quanto incredibile fosse che il dollaro mantenesse il suo valore senza alcun collaterale o garanzia a sostegno. La risposta se la diede da solo: al mondo basta «la fiducia nella Nazione che lo stampa». E questa forza, la fiducia nell’America – anche in quella di Trump – permane e continuerà. Forse anche per mancanza di alternative.