Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  ottobre 22 Mercoledì calendario

Intervista a Dacia Maraini

Dacia Maraini diventa protagonista anche sul grande schermo. La scrittrice italiana più tradotta nel mondo (in oltre 35 paesi) è stata infatti tra i nomi più attesi della XX edizione della Festa del Cinema di Roma con il docufilm Dacia, Vita Mia – Dialoghi Giapponesi, scritto e diretto da Izumi Chiaraluce prodotto da Michelangelo Film, Luce Cinecittà, Rai Documentari, in co-produzione con Aura Film e presentato lunedì sera nel corso della kermesse capitolina. Una elegante rilettura della biografia dell’autrice de La lunga vita di Marianna Ucria alla luce della primissima giovinezza vissuta da Dacia in estremo oriente. Ben otto anni con i genitori: l’antropologo Fosco Maraini, la pittrice Topazia Alliata e le sorelle Yuki e Toni.
Dacia, Vita mia. Memorie giapponesi che da libro di successo è diventato anche una sorta di autobiografia per immagini. Ci ha fatto una bella sorpresa...
«Io in realtà ho fatto solo due interviste (sorride) per cui no, non parlerei di autobiografia… Quanto dell’ottimo lavoro della regista, figlia di un papà italiano e di una mamma giapponese, che assieme alla montatrice, davvero molto brava, ha realizzato un lavoro secondo me molto bello».
Quali delle sue grandi opere è stata più influenzata dalla sua esperienza giapponese?
«Nessuna più di Vita mia. Quest’ultima è un’opera grazie alla quale sono tornata a viaggiare tantissimo. So che il libro è appena uscito nella versione tradotta in Spagna, in Francia, in Germania, in Croazia. Tutti paesi nei quali poi capita mi invitino a presentarlo. Ora, ad esempio, sono in partenza per Tbilisi, in Georgia».
Lo scrittore Paolo Di Paolo, nel film, sottolinea come il suo recente racconto del Giappone, abbia rappresentato a una sorta di “sfondamento” di una porta rimasta chiusa per molto tempo. Perché ha deciso di oltrepassare quella linea proprio ora?
«Per il periodo che stiamo vivendo pieno di minacce di guerra… Tutto questo mi ha portato a ripensare a cosa sappia produrre la guerra, quali situazioni di difficoltà. Tutte cose che io ho vissuto da bambina. Per tutte queste ragioni ora mi è sembrato il momento più opportuno per tornare a parlarne e l’ho fatto attraverso Vita mia, un libro che prima non riuscivo a finire...».
Sia il libro sia il docufilm sono in buona parte centrati sulla sua drammatica esperienza della prigionia nei campi di concentramento giapponesi. Qualcosa di cui in Italia si sa davvero poco. È così?
«È assolutamente così. Qui in Italia non ne sa proprio niente nessuno… Non sanno nemmeno che sono esistiti! Indubbiamente erano piccoli e fortunatamente non si è trattato di campi di sterminio ma abbiamo comunque rischiato di morire di fame».
Un periodo che, nonostante tutto, lei ha definito comunque un momento di formazione. Perché?
«Anzitutto perché lì ho imparato che cosa significa resistere. Del resto, quando si vivono realtà così dolorose, se non si impara a resistere si muore. E spesso, anche se magari non si muore fisicamente, si può morire psichicamente, perché se ne esce devastati. Io per fortuna avevo questi genitori molto reattivi, molto vivi, molto convinti di quello che pensavano e mi hanno aiutato a creare delle forme di resistenza interiore sia col corpo ma anche con lo spirito».
Una famiglia d’origine, la sua, rimasta così salda durante quell’esperienza che poi, al ritorno in Italia, invece si è un po’ sfaldata. Come se lo spiega?
«Quella è stata la conferma del fatto che quando si vivono esperienze drammatiche si tenda a solidarizzare di più, a restare più uniti, insieme. Mentre quando si torna a vivere la libertà probabilmente prevalgono altre esigenze…».
Forse anche per questo è rimasta, per certi versi paradossalmente, così legata al Giappone. Alla signora che vi faceva da tata, per esempio.
«Sì, con lei siamo rimasti molto vicini a lungo. Del resto grazie a lei avevamo imparato la lingua, le fiabe e le filastrocche in giapponese che in parte ancora ricordo. La cosa che mi colpì positivamente, quindi, anche nel periodo del campo, fu che, a parte i guardiani che erano crudeli e sadici, le persone comuni tutt’attorno avevano capito che eravamo solo della povera gente, una famiglia semplice tenuta prigioniera. Noi non eravamo militari, non avevamo sparato o fatto qualcosa contro il Giappone. Anzi... Mio padre era un appassionato studioso del Giappone e ci eravamo integrati perfettamente nel mondo giapponese. Tutta la gente comune che viveva attorno era rimasta dalla nostra parte. Questo mi ha portato ad amare ancora di più quel popolo».
Ci avviciniamo a un anniversario importante: il 50esimo della morte di Pasolini. Come si fa a renderlo ancora attuale e attraente per i giovani, uscendo un po’ dalla solita litania memoriale?
«Separando la cronaca nera, il fatto che ancora non sappiamo bene chi l’abbia ucciso, dalle qualità letterarie. Ai giovani direi di cominciare dalle bellissime poesie di Pier Paolo che è stato prima di tutto un grande poeta, poi consiglierei i film, anche quelli molto poetici, quindi i saggi. Non sono state le vicende sociali o la sua uccisione a rendere grande Pasolini ma gli scritti e le opere che ci ha lasciato».