La Stampa, 21 ottobre 2025
Intervista a Francesco Guccini
Sull’Appennino la stagione cambia un poco prima e l’ultimo raggio di sole che si posa su Pàvana ha il colore della nostalgia: per l’estate appena trascorsa, per gli amici che non vivono più qui, per le avventure di un bambino che correva dove voleva e imparava la fantasia dai boschi: «Passavamo le giornate al mulino, proprio laggiù, a pochi metri dalla casa, e stavamo nel fiume tutta l’estate, da bambini, da ragazzi, a catturare i pesci con le mani, scovandoli sotto le pietre, per portarli la sera a casa per mangiarli tutti insieme, con le famiglie, con gli amici del paese». Francesco Guccini di quel bambino che è stato ha ancora l’innocenza e apre con allegria le paste di meliga, i torcetti e il Moscato che sono arrivati a Pàvana per merenda. Di quel bambino ha ancora la fantasia, da cui è nato anche quest’ultimo romanzo che esce oggi, Romeo e Giulietta 1949.
La memoria è spesso il motore dei suoi libri, come se volesse consegnare al futuro la storia di un mondo che non c’è più.
«Questa storia è solo vagamente autobiografica. Sì, il bambino protagonista finisce in una piccola città, ma è un poco più grande di quanto fossi io all’epoca dei fatti, il 1949. Tutto si svolge a Carpi, da dove veniva la famiglia di mia madre, ma dove io non ho dormito nemmeno una notte. È vero che anche la famiglia di mia madre era numerosa e vivevano tutti insieme. Insomma, ho preso degli spunti, ma non ho fatto una vera fotografia».
In questa storia c’è l’amore e c’è la politica, c’è l’Italia di quegli anni, appena uscita dalla guerra.
«C’è un affresco dell’epoca. Ci sono le famiglie democristiane, come era la mia, i dirimpettai comunisti e persino i fascisti, che però dalle mie parti allora mica c’erano più».
Che cosa l’ha spinta a decidere di raccontare questa storia?
«A dire il vero, l’immobilità. Ho avuto la sventura, diciamo, di passare due mesi all’ospedale, senza potermi muovere dal letto. E così mi sono messo a fantasticare, a raccontarmi da solo delle storie, dei personaggi, a costruire l’impianto di una cosa compiuta, che poi quando ho potuto ricominciare a scrivere ho messo sulla carta».
Nei suoi racconti ci sono echi di Fenoglio e Pavese, ma anche di Gozzano. Sono autori che hanno ispirato la sua scrittura?
«Non so dire se ci sia una vera e propria influenza sulla scrittura, ma certamente sono autori che ho amato molto. Purtroppo ora soffro perché non riesco più a leggerli, per colpa di questi miei occhi. Ma ho da poco riascoltato tutto Fenoglio e ricordo a memoria le poesie di Gozzano. Per la mia formazione sono stati importantissimi anche Salgari e gli scrittori americani. Comunque questi torcetti e questo Moscato sono gozzaniani davvero».
Li fanno apposta così, gozzaniani. Ma merenda a parte, la sua scrittura è ricca di riferimenti ai grandi americani del ’900. Cosa prova di fronte all’immagine che l’America sta dando oggi di se stessa?
«Delusione e sconforto. L’America sta attraversando una fase in cui vive cose troppo diverse da come le immaginavo tanti anni fa, anche se già con la guerra in Vietnam quel “vuoto mito americano” aveva sceso parecchi gradini nella mia considerazione. Però ricordo anche cose molto belle, come aver insegnato per vent’anni in questa università americana che ha una sede a Bologna, il Dickinson College. Hanno fatto una cosa bellissima intitolandomi una borsa di studio e ogni anno un giovane può pagarsi gli studi a nome mio».
Si ricorda ancora di quando vide la città per la prima volta?
«Eccome. Mi fece una gran paura. Subito dopo la mia nascita, nel 1940, venni portato nella casa dei nonni qui a Pàvana e fu un’infanzia libera e piena di stimoli. Poi mio padre tornò dal campo di concentramento: era stato uno dei militari italiani che aveva scelto di non aderire alla Repubblica di Salò, e per questo se lo portarono via. Nel ’45, in agosto, è tornato. Così trovò lavoro alle Poste di Modena e ci trasferimmo lì. Ho subito un trauma pauroso. A Pàvana c’era una cultura contadina, di montagna, con le bestie che giravano intorno, il dialetto, il pane e il vino tutti toscani. A Modena si comprava tutto nei negozi, si parlava in maniera diversa e c’era una città tutt’attorno, non un mulino con il suo fiume».
In quegli anni, come in questo libro, la vita politica si intrecciava profondamente con quella privata delle persone. Ricorda i suoi genitori andare al voto dopo la guerra?
«Certo che li ricordo: ricordo loro e l’atmosfera di quei giorni, il voto per il Referendum monarchia-repubblica. Quell’atmosfera me l’ha ricordata anche il film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani. C’erano le zie che dicevano alla mamma di stare attenta a non sporcare la scheda elettorale con il rossetto, che altrimenti sarebbe stata invalidata. C’era in mia madre anche il desiderio di dare un voto di classe, perché si sapeva che i signori avrebbero votato per la monarchia, ma i signori non avevano fatto e non avrebbero mai fatto nulla di buono per quelli come noi: anche per questo votò Repubblica. Poi certo, la mia famiglia era tutta di democristiani, era l’Italia di don Camillo e Peppone, divisa, ma che riusciva a stare insieme».
In questi suoi libri su quegli anni si respira in effetti l’Italia di Guareschi. Lo leggeva?
«L’ho molto amato, ma più che leggerlo io, lo assorbivo dalla grande passione per lui di mio padre. Era amico dell’attore Gianrico Tedeschi, erano stati internati insieme, si raccontavano a memoria gli episodi di Don Camillo e di Mondo piccolo e ridevano molto».
Lei ha mai avuto la tentazione di credere in Dio?
«No, mai. Non me ne sono più occupato dopo aver smesso di andare alla messa da ragazzino. Però il mondo cattolico ha molto amato le mie canzoni. L’arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Zuppi, mi onora della sua amicizia. È venuto a trovarmi fin quassù, a casa mia, diverse volte».
Prima ha parlato della sua percezione degli Stati Uniti, ma come vede l’Italia di oggi?
«Sono un po’ preoccupato e spaventato. Ma ho sempre la speranza che le cose migliorino. Anni fa Giorgia Meloni, quando era nella organizzazione giovanile del suo partito, mi fece invitare alla loro festa. Io molto cortesemente declinai l’invito. Da allora non mi hanno più cercato».
Come vive il fatto che ci siano sempre nuovi giovani che si avvicinano alle sue canzoni e le amano?
«Mi fa ovviamente molto piacere, ma mica mi amano tutti. Anzi. Mi hanno detto che sui social c’è gente che dice cose terribili di me e questo in qualche modo mi affascina. Ma la cosa più divertente è stata che un tizio si è preso la briga di scrivermi una lettera per dirmi: “Guccini, va all’inferno vecchio rimbambito! Per fortuna che c’è Vasco Rossi!”. Cioè, si è preso la briga di prendere un cartoncino, scrivermi, comprare il francobollo per mandarmi a quel paese».
Quali sono le storie che vorrebbe ancora scrivere?
«Sono anni che ho in mente un romanzo ampio, ma non lo scriverò mai. Troppa fatica, sarebbe troppo lungo. Persino la storia è difficile da raccontare. Parte da una vicenda vera, che nasce dal racconto di una mia bisnonna, una Fornaciari, che era parente di Enzo Biagi, peraltro. Insomma, questi parenti della mia bisnonna erano contrabbandieri di sale da queste parti. C’è tutta una storia di dazi, già allora, di fughe da dogane e doganieri, di truffe, briganti e inganni. E poi c’è un montanaro che vede il mare per la prima volta da adulto. Anche io ho visto il mare per la prima volta a dodici anni: e non mi ha nemmeno fatto questa grande impressione. Ma non riuscirò mai a scriverla, non so quanta strada posso avere ancora da fare, ma mi è rimasta la fantasia».
Come vorrebbe essere ricordato?
«Come uno che non è mai stato pieno di sé. Anche se nel segreto, un po’ ambizioso lo sono stato. Ma davvero non mi sono mai dato molta importanza, forse perché i miei genitori mi hanno sempre tenuto “masato”, si dice così dalle nostre parti: vuol dire umile, al posto giusto. Per dire, mia madre è venuta due volte a vedere i miei concerti, qui a Porretta e a Bologna. Mio padre mai. Ma più che altro mi dispiace che mio padre non abbia letto i miei libri, quelli ambientati qui nel suo mondo, il mondo del mulino».
Se potesse incontrare ancora una volta suo padre, che cosa vorrebbe dirgli?
«Ah, mi piacerebbe molto parlare di nuovo con lui di politica e di storia. Lo facevamo spesso, nei suoi ultimi tempi. Era molto interessato alla storia, si era anche comprato dei libri per studiare che poi io e mio fratello abbiamo ritrovato a casa sua. Era un uomo speciale mio padre. Quando venne qui a Pàvana, i primi tempi se ne stava in un angolo zitto, perché non capiva e non parlava il dialetto, ma tutti dicevano: “Guarda quel Guccini, che tipo riflessivo ed educato!"».
Ed era riflessivo ed educato?
«Tutti quelli che l’hanno conosciuto, hanno sempre detto che persona dolce che era, silenzioso, affabile. Era una grande personaggio mio padre».
E lei?
«Io ho preso da mia madre».