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 2025  ottobre 17 Venerdì calendario

Un principe napoletano per il Myanmar

June Rose Yadana Bellamy ha vissuto nove vite in una sola esistenza. Principessa birmana per sangue, australiana per padre, italiana per amore, ha attraversato il Novecento come una cometa dorata. Figlia dell’ultimo rampollo della dinastia Konbaung spodestato dai britannici, fuggì bambina dai bombardamenti giapponesi, baciò il primo fidanzato su un piroscafo nel Golfo del Bengala, sposò un medico napoletano dell’Organizzazione mondiale della sanità che liberò personalmente dalla giungla birmana, pedalando in bicicletta con 30 mila dollari in una busta. Più tardi, dipinse con Lazzaro Donati, lavorò per Emilio Pucci, sposò il truce dittatore birmano Ne Win per poi fuggire, accusata d’essere una spia della Cia. Infine, aprì una scuola di cucina fusion a Firenze, dove si è spenta nel dicembre 2020 lasciando un’autobiografia dal titolo perfetto: Le mie nove vite (add editore).
Ma questa storia di una vita formidabile, che sembra un film mozzafiato sulla capacità di rinascita di una donna indistruttibile, continua oggi con suo figlio, Michele Postiglione Bellamy, che dall’elegante terrazza dell’Hotel Signum, a Salina, rivendica un’eredità che non è solo di sangue blu, ma anche di responsabilità politica. «Sono l’ultimo principe di Limbin», mi dice con naturalezza, «non posso restare in silenzio mentre i militari birmani bombardano i civili».
Gli eroi non hanno età
Napoletano di padre, birmano di madre, fiorentino di adozione, il principe di Myanmar (come si chiama oggi il Paese, anche se lui qui preferisce usare il vecchio nome di Birmania, ndr) ha trasformato l’identità aristocratica in una militanza digitale che definisce come «Free-Myanmar Silent Revolution». Sui social si firma come “Myanmar Activist Prince” e posta immagini che documentano le violazioni dei diritti umani perpetrate dalla giunta che nel 2021 rovesciò il governo civile, arrestando il Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. «La mia militanza non è altro che l’utilizzo delle nuove forme di comunicazione», spiega mentre indica il retro della maglietta che raffigura un bimbo ucciso dai bombardamenti aerei dei golpisti. La scritta dice: “Gli eroi non hanno età”. «Siccome di notizie che riguardano la Birmania ne arrivano davvero pochissime in Europa, io faccio da amplificatore. Per l’80 per cento dei miei follower, birmani di ogni schieramento, è una forma di speranza, li fa sentire meno soli».
È tornata la principessa!
La sua battaglia affonda le radici nella memoria collettiva del Myanmar. «Il ricordo della famiglia reale è molto vivo», racconta. «Tutti i ragazzi che attraverso Facebook mi hanno cercato per scoprire la storia di mia madre avevano sentito parlare della mia famiglia solo dai loro nonni, perché nella scuola del regime non si studia la storia prima dei militari».
Il bisnonno di Michele, il principe Kanaung, fu decapitato per aver tentato di modernizzare il regno. Il nonno, Limbin Mintha, combatté nella terza guerra anglo-birmana prima di finire in esilio. «Il nostro era un regno propositivo, non reazionario, tendeva alla modernizzazione del Paese per evitare di isolarlo, come accade purtroppo oggi», riflette Michele guardando pensoso il mare all’orizzonte. «Nella memoria collettiva il regno di Birmania è associato all’idea di libertà».
Ma che senso ha, oggi, rivendicare un titolo nobiliare in un Paese devastato dalla guerra civile? «Ha senso se crolla l’attuale struttura», ammette. «Si può ipotizzare un sistema politico democratico dove un monarca può rappresentare l’unità del Paese, super partes. Simbolo di unità nazionale».
Il Myanmar è un Paese spezzato con milioni di sfollati sull’orlo della fame o già alla fame. Molte famiglie sono spaccate, un fratello è militare e l’altro combatte nella giungla. «È un’anarchia fuori controllo». Il principe descrive un territorio dove sono tornati i signori della guerra, dove intere regioni sfuggono al controllo militare, dove l’economia è implosa dopo quattro anni di colpo di Stato.
«L’unica maniera per allentare la morsa dei militari è che ogni grande etnia si riappropri della libertà di gestione del proprio territorio, diventando un piccolo Stato autonomo», propone. Ma il cambiamento può avvenire solo dall’esterno: «Al momento, può essere solo la Cina che un giorno dice basta a questo sistema».
L’impegno di Michele non è nato dal nulla. «Raccolgo l’eredità del bisnonno. Ma solo dopo la scomparsa di mamma, che ha sempre mantenuto un low profile, aiutando il popolo senza apparire, traumatizzata dall’esperienza di first lady del generale Ne Win».Quando nel 1976 sposò il dittatore birmano, June credeva di poter cambiare il Paese dall’interno. Ma la popolarità che esplose attorno a lei – «è tornata la Principessa!», gridava la folla – minacciò il potere del marito. «Si è sentito sfidato». Il matrimonio durò cinque mesi, finito con un portacenere scagliato sul viso della principessa che sgattaiolò a Londra.
Oggi il principe Michele porta avanti la battaglia con un approccio che definisce «silente»: «Parlo attraverso le immagini con un brevissimo commento. Fine. Non alzo la voce, né mi avventuro in analisi: cerco di ricordare cosa sta succedendo. Non spero niente», dice con pragmatismo. «Cerco di tenere aperta questa finestra. Perché non si smetta di parlarne».
Curatore d’arte e organizzatore di eventi culturali, Michele vive tra Firenze e Lipari, dove ogni primo giugno celebra il compleanno della madre con riti buddhisti che da lei ha imparato.
Perché Gaza sì e noi no?
La domanda che non gli dà pace è: perché si ignora la tragedia birmana? I numeri raccolti dalla Commissione Onu per i diritti umani superano le stime più pessimistiche: un milione di apolidi rifugiati Rohingya nei campi profughi del Bangladesh, mentre nel Myanmar almeno 3,5 milioni di persone sono sfollate dopo il colpo di stato del 2021. Complessivamente, dodici milioni di birmani hanno bisogno di assistenza umanitaria d’emergenza, con la fame in rapida diffusione e rischi crescenti di malnutrizione per bambini e donne incinte. Una crisi che si aggrava ogni mese mentre il mondo guarda altrove. «I militari bombardano i villaggi, facendo strage anche di bambini. Tengono alla fame i civili. Come a Gaza. Però nessuno mostra per loro lo stesso trasporto, nessuno espone la bandiera Free Myanmar. È ora di cominciare a farlo». Il Paese, in una posizione strategica sulla Via della seta, ha molte miniere di terre rare. E se è vero che l’80 per cento delle terre rare vengono dalla Cina, di queste un’alta percentuale è estratta in realtà nel Myanmar. Non a caso è questo uno dei temi che mettono in conflitto tra loro le due superpotenze.
Mentre il sole tinge di rosa Stromboli, che sembra galleggiare in lontananza, l’ultimo principe evoca lo strazio del Paese in cui è nato: bambini feriti, villaggi bombardati, manifestanti uccisi. «Quello che avverrà non dipende da me, faccio quel che posso». E così Michele Bellamy Postiglione, principe senza regno, combatte la sua guerra silenziosa con l’eleganza di chi sa che alcune battaglie si vincono semplicemente non smettendo mai di combatterle.