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 2025  ottobre 21 Martedì calendario

Data center, le rivolte negli Usa: a pochi il nuovo potere dell’AI, agli altri bollette più care (e l’invasione di Big Tech)

Ho passato gli ultimi giorni in Northwest Indiana, sulle rive del Lago Michigan. La skyline di Chicago è visibile dalla spiaggia e in tutta l’area di Chicago continuavano a comparire gli uomini dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice) inviati dall’amministrazione. Dopo 72 ore avevano fermato mille persone, mentre i residenti si organizzavano per le manifestazioni «No Kings» contro Donald Trump. 
Ma un altro tipo di protesta, meno visibile ai grandi media americani, mi ha sorpreso di più. Perché non ero nell’America liberal delle grandi metropoli, ma in quella spesso conservatrice e amante delle tradizioni dei piccoli centri della Rust Belt. Sui prati perfettamente tenuti delle villette monofamiliari con la bandiera a stelle e strisce davanti, nei piccoli centri, si leggeva sempre lo stesso cartello: «No Data Centers». 
È un manifesto che si sta diffondendo nella provincia americana come un fuoco che cova in silenzio, poco notato a Washington, a New York o a San Francisco. Quel cartello, «No Data Center», torna a Columbia Gorge (Oregon), Buckeye (Arizona), Peculiar (Missouri) e in decine di altri posti che probabilmente non avete mai sentito. Eppure è da lì che passa la storia economica americana e probabilmente anche la nostra. Perché quelle proteste rimandano alle nuove disuguaglianze che la rivoluzione dell’intelligenza artificiale può portare: sociali, ma in primo luogo geografiche. Non diverse, in questo, da ciò che è accaduto trent’anni fa ai distretti industriali della Rust Belt messi in crisi dall’apertura alla concorrenza cinese, mentre Wall Street cresceva sempre di più. Vediamo.
Per capire, ho suonato alla porta di una casa che aveva quel piccolo cartello sul prato: «No Data Center». Ero a Hobart, trentamila abitanti nella contea del lago. La padrona, Carla Houck, è un’americana di origine tedesca il cui padre è immigrato da queste parti per lavorare in un’acciaieria della US Steel. Lei è manager di banca, il marito detective di polizia in pensione. Davanti a casa hanno una doppia bandiera americana, la seconda solo in bianco e blu e una striscia più scura al centro a esprimere sostegno per le forze dell’ordine. Non ho chiesto per chi votano, ma sono decisamente aperti ai dazi di Trump («Non ci siamo abituati ma non per questo bisogna respingerli. Quel che c’era prima non stava funzionando»). In Indiana, l’attuale presidente ha battuto Kamala Harris in ottanta contee su 84.
Ciò che preoccupa Carla Houck però a prima vista non ha niente di politico. A un miglio da casa sua c’è un campo incolto. Si sono presentati gli avvocati di un’impresa di costruzioni chiamata DevCo Hobart, costituita in febbraio di quest’anno. Un’azienda senza storia né volto. È lo schermo per coprire l’identità e il disegno delle Big Tech – di solito sono Google, Amazon, Meta, Microsoft o OpenAI – che vuole comprare quel campo e costruirci l’ennesimo, massiccio data center: sei blocchi separati, 1.600 metri di lato in totale, alti 23 metri con impianti di un’altra quindicina sul tetto. Recinzione alta tre volte i limiti consentiti della zona. Personale, a regime: non più di una quarantina di tecnici. Funzione – magazzino di dati o capacità computazionale per l’intelligenza artificiale – mai spiegata. Consumo elettrico e d’acqua, altro mistero; ma di sicuro astronomico.
La misteriosa DevCo spinge sul sindaco di Hobart con i mezzi di cui dispone – il potere del denaro, i sofismi dei lobbisti e degli avvocati pagati bene – per farsi autorizzare il data center al più presto. «Sono sempre così calmi con i loro argomenti, non diventano mai emotivi – dice Carla Houck -. La gente di qua invece si scalda e non riesce a esprimersi bene». Carla Houck è la più razionale fra i locali che resistono. Non importa se i residenti di qui hanno votato Trump o Kamala Harris. Tutti temono le inarrestabili onde di rumore a bassa frequenza dei data center, temono per il consumo di acqua, per la loro bolletta elettrica. Ma soprattutto temono l’opacità. «Nessuno aveva anticipato la velocità a cui tutto questo sta accadendo – dice Carla Houck – ma continuano a non spiegarci nessun dato, nessun dettaglio».
Da fuori un data center appare come un capannone senza finestre. Dentro contiene file di computer dal pavimento al soffitto per decine, centinaia di metri. Nel mondo dell’intelligenza artificiale, in particolare generativa, serve a produrre l’enorme capacità computazionale che allena gli algoritmi e li rende più potenti. Questa intelligenza è profondamente fisica, materiale: i sistemi divorano elettricità per girare e divorano acqua per raffreddarsi, a costo di dover scavare sotto i data center per decine di metri fino a trovare faglie. Il marito di Carla Houck nota che la bolletta della luce a casa loro è già rincarata del 30% per l’aumento della domanda legata alla rivoluzione dell’AI. Un’analisi di Bloomberg mostra come all’aumento dei data center corrisponde proporzionalmente un rincaro notevole del costo della materia prima elettrica, in proporzione maggiore nelle aree dove la concentrazione di data center è più alta (grafico sotto).
Qui c’è un primo fattore di diseguaglianza che rischia di dividere profondamente la società ovunque l’intelligenza artificiale prenderà piede. Dunque, in tutte le economie avanzate. Il valore di borsa di colossi legati a questa rivoluzione come Nvidia (4.450 miliardi di dollari, più 15% nel 2025), Microsoft (3.820 miliardi di dollari, più 6,25% nel 2025), Meta (1.800 miliardi di dollari, più 19,6% quest’anno) o Oracle (830 miliardi, più 52% quest’anno) è legato alla loro capacità computazionale nell’AI e a come riescono a farla crescere. Quest’industria oggi è a uno stadio simile a quello delle ferrovie nell’Inghilterra degli anni Trenta e Quaranta del diciannovesimo secolo, come nota Paul Krugman. Anche allora si trattava di una tecnologia che avrebbe cambiato la storia; anche allora esigeva pesanti investimenti fisici; anche in quel caso la mania speculativa aveva fatto esplodere le valutazioni di borsa molto oltre i profitti prevedibili delle imprese coinvolte. Anche allora, scrive Krugman, ci si affrettò a costruire con l’idea che chi riesce per primo a costruire la rete più forte, diventa il soggetto indispensabile che gode di una rendita monopolistica. Ma proprio come accadde con le ferrovie quasi due secoli fa, si sa già che gli investimenti iniziali non generano ricavi così rapidi e alti da far evitare la bancarotta di buona parte delle imprese in questo business (un recente rapporto del Massachusetts Institute of Technology calcola che il 95% delle imprese dell’AI oggi non è in utile; un recente rapporto di Bain Capital stima invece che mancano al settore almeno 800 miliardi di crescita di ricavi entro il 2030 per rendere sostenibili gli attuali investimenti). Ma si sa anche che la rete così costruita – allora di strade ferrate, oggi di capacità computazionale – è comunque destinata a sopravvivere allo scoppio della bolla e a cambiare il volto della società e il corso della storia economica.
Insomma, i top manager delle Big Tech capiscono che devono investire in data center per restare credibili come futuri oligopolisti, dunque per far continuare a crescere il loro titolo a Wall Street e, con esso, le loro stock option. Sanno che prima o poi la bolla esploderà, ma ora non importa. Diceva Chick Prince di Citigroup, subito prima che saltasse il mercato dei subprime nel 2007: «Finché la musica va, bisogna alzarsi e ballare». E i colossi del Big Tech ballano: gli investimenti solo da parte di Google, Amazon, Microsoft e Oracle passano da poco meno di cento miliardi di dollari nel 2022 a poco più di trecento miliardi quest’anno. Sono questi i progetti che poi arrivano a Hobart (Indiana), Columbia Gorge (Oregon), Buckeye (Arizona), Peculiar (Missouri) e centinaia di altri posti così. Che ora si ribellano.
Quei grandi gruppi investono così tanto che ormai la costruzione di data center diventa determinante per la crescita e il mercato azionario negli Stati Uniti. Come mostra il grafico qui sopra, le stime su dati del Bureau of Economic Analysis segnalano che l’investimento nell’intelligenza artificiale quest’anno rappresenta ormai circa metà della crescita americana: senza di esso, sulla trumponomics graverebbe un’aria di crisi. E senza di esso anche su Wall Street graverebbe la stessa aria. Le otto imprese protagoniste di questa rivoluzione (Nvidia, Microsoft, Apple, Alphabet, Amazon, Meta, Broadcom e Oracle) rappresentano da sole il 39% del valore azionario dell’intero listino principale di New York, lo S&P500; e la crescita dei titoli delle cosiddette “Magnifiche 7” (togliete dalla lista Broadcom e Oracle e aggiungete Tesla) rappresenta quasi il 60% di tutta la crescita dell’intero S&P500 quest’anno.
Certo, queste imprese investono così tanto che a volte l’intento di continuare a gonfiare la bolla, a far andare la musica un altro po’, diventa troppo visibile. Di recente hanno iniziato a concludere accordi che sembrano affari, ma sono puro scambio merce circolare. Di recente Nvidia si è impegnata a investire cento miliardi di dollari in OpenAI, a patto che OpenAI compri con quei fondi microchip prodotti da Nvidia stessa per generare più capacità computazionale: più gigawatt OpenAI costruisce, più Nvidia sbloccherà altri fondi perché OpenAI le compri altri cheap. Poco dopo OpenAI ha concluso un accordo simile anche con AMD, un concorrente diretto di Nvidia. Entrambi i gruppi di semiconduttori vendono i loro prodotti pagandoli con i propri stessi soldi, per far produrre capacità di calcolo per la quale oggi non c’è domanda; se non è una frode contabile questa, è solo perché tutto oggi avviene così alla luce del sole.
Nessun dazio
Ma, appunto, ormai questa rivoluzione tecnologica è ormai così importante per Wall Street e per la stessa crescita americana, che Trump la tratta in modo speciale. Come ricorda Joseph Politano, i computer e le componenti dei data center sono fra le pochissime categorie esenti da qualunque dazio all’importazione. Così Trump fa politica industriale favorendo AI building rispetto a quasi qualunque altro settore: chi fa auto o altri prodotti industriali deve subire rincari di tutti i pezzi importati, chi fa data center invece no.
Cosa c’entra questo con le bollette della signora Carla Houck e, presto, di tutti noi? C’entra in primo luogo perché la decisione di distribuire sulla collettività l’aumento dei prezzi elettrici generato dai data center è una scelta politica. Per omissione, ma è una scelta dei governi. È perfettamente possibile elaborare un metodo per far pagare solo alle Big Tech l’incremento di domanda elettrica legato ai loro enormi investimenti in capacità computazionale; così invece la collettività di fatto sta sussidiando la spesa di alcune delle aziende più ricche e dei manager più pagati al mondo. Succede già negli Stati Uniti, accadrà presto anche in Europa e in Italia. Non è un caso se oggi in America le proteste locali hanno già bloccato decine di progetti per 64 miliardi di dollari in sette stati diversi.
Ma non c’è solo questo. Proprio la percezione che la bolla dell’AI sia destinata a saltare è uno dei temi su cui Carla Houck e la sua comunità di Hobart, Indiana, insistono di più. Temono che il data center che qualcuno oggi vuole costruire accanto a casa loro presto divenga l’ennesimo relitto post-industriale della Rust Belt, reso obsoleto da chissà quale svolta finanziaria o tecnologica. Prima ancora hanno paura che i loro vicini abbandonino la zona per l’inquinamento o il rumore del data center – o la bruttezza della sua carcassa, quando non servirà più – facendo crollare le entrate fiscali del comune, dunque la cura e sorveglianza delle strade, la loro sicurezza e infine il prezzo delle loro stesse case. Ho chiesto a Carla: «E se questa rivoluzione arricchisse solo alcuni, a spese di molti?». Mi ha risposto: «Ora il name of the game è AI. Ma non è sempre stato così?».