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 2025  ottobre 21 Martedì calendario

Kristian Ghedina: «Mia madre morì in pista ma non incolpo la neve: ho continuato a sciare per lei. Temevo di piacere alle donne solo perché ero famoso»

Non poteva non essere in movimento Kristian Ghedina quando ha accettato di fare questa intervista. Lo raggiungiamo in auto, rigorosamente con il vivavoce perché di sfidare la sorte non ne ha più voglia, o forse no. L’occasione di questa chiacchierata è l’uscita della sua seconda autobiografia «Ghedo. Non ho fretta, ma vado veloce» edita da Edizioni Minerva e scritta con Lorenzo Fabiano che ne ha raccolto le confidenze e i ricordi in modo sincero e senza filtri, proprio com’è il campione ampezzano.
Tutti ricordiamo il suo sorriso guascone al cancelletto della partenza, prima di buttarsi a velocità folli sulle piste di mezzo mondo. La sua spaccata sulla pista Streif di Kitzbuhel a 137 chilometri orari è rimasto uno dei gesti più pazzi eseguiti in una competizione ufficiale. O la sua seconda parte di carriera al volante di macchine potenti con in mezzo le parentesi televisive che l’hanno fatto conoscere anche al pubblico che non seguiva i suoi sport. Il libro, che scorre piacevolmente e velocemente come una gara di libera, si apre con una citazione di Ghedina stesso: «Per me la vittoria più bella è essere quello che sono».
Appunto, chi è Kristian Ghedina?
«Sono quello di sempre. Un uomo schietto, simpatico, umile, che ha saputo restare al suo posto senza montarsi la testa per il successo, anche quando magari avrei potuto. La percezione che ha la gente di me è quella del campione inarrivabile, mentre io mi fermo a parlare con tutti, senza distinzioni, e ci resto male se mi danno del lei: mi fa sentire incredibilmente vecchio. Sono rimasto “normale”. Non ho mai sfruttato la mia popolarità, paradossalmente neanche con le donne perché temevo che si avvicinassero al campione e non a Kristian e una delusione amorosa non l’avrei superata facilmente».

Una love story lunga nella sua vita l’ha avuta però: quella con la velocità.
«È una necessità che ho sempre avuto, sin da piccolo. Una continua ricerca di adrenalina: mi buttavo da qualsiasi cosa a qualsiasi altezza, senza timore. Mia madre era come me e mio papà era disperato. Quando mi facevo male perché avevo osato un po’ di più, sapevo che le avrei prese da lui e così, anche se ero a pezzi, sopportavo la sofferenza in silenzio per il timore che rincarasse la dose. Il risultato? Ho una soglia del dolore molto alta. Il dolore per me è sempre stato uno stimolo: dopo gli incidenti che ho avuto sono arrivate vittorie insperate. Un po’ perché sono anticonformista e un po’ per rivalsa verso coloro che mi credevano finito prima del tempo».
L’altra relazione duratura è quella con la neve, elemento che le ha dato il dolore più grande – la morte di sua madre, vittima di un incidente sugli sci – ma anche tante gioie.
«Non ho mai colpevolizzato la neve per la morte di mia madre. È stata una fatalità, se vogliamo anche beffarda per un’esperta come lei. Ho continuato proprio per lei, per la sua memoria. Il suo sogno, la sua passione sono i miei e sono certo che sarebbe stata entusiasta della mia carriera».
Due biografie e un docufilm sulla sua vita presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Non crede che la gente possa pensare che sia un po’ troppo egocentrico?
«In realtà, quando ho scritto la prima autobiografia avevo trent’anni. Ora ne ho 55 e di cose nella mia vita ne sono successe ancora tante e ho semplicemente voluto raccontarle. Poi, ci sono tanti giovani che magari non mi hanno neanche sentito nominare ai quali vorrei raccontare la mia storia che è ironica e costruttiva al contempo, perché ho fatto sì delle pazzie, ma mi sono sempre messo in gioco senza mai tradire chi sono».
Tra pochi mesi il fuoco sacro di Olimpia arderà nella sua Cortina. Le è dispiaciuto non essere stato coinvolto ufficialmente in questa olimpiade, lei che è così legato alla sua terra?
«Mi è dispiaciuto sicuramente. In tanti credevano che io fossi stato incluso di default nell’organizzazione. Nessuno mi ha cercato e io non mi sono proposto. Mi aspettavo che lo facessero, però. Farò degli eventi legati ai miei sponsor, ma sono cose esterne al programma ufficiale. Non voglio passare da presuntuoso, ma a Cortina e di Cortina quale altro atleta ha fatto i risultati che ho raggiunto io? (33 podi in Coppa del Mondo, di cui 13 vittorie. Detiene ancora il record di 166 gare disputate in discesa libera in Coppa del Mondo. Ha partecipato a 5 Giochi olimpici invernali e a 8 Mondiali, ndr). Eugenio Monti a parte, che non c’è più, resto solo io. C’è Stefania Costantini, ma il suo sport (il curling, ndr) è ancora un po’ di nicchia»
Cosa darebbe per gareggiare sulle piste di casa in questa olimpiade?
«Ammetto di averci pensato. Poi però ho realizzato che le gare maschili si terranno a Bormio, una pista che non è mai stata nelle mie corde, l’ho sempre patita. Un tracciato bellissimo, difficile, tecnico che però ha una luce micidiale. Così ho trovato una giustificazione per frenarmi. Lei penserà che non abbia l’età per gareggiare, ma le confido che fino ai mondiali del 2021 ho pensato di rientrare, perché questa cosa dell’aver lasciato le gare nel 2006 non l’ho mai digerita del tutto. Sono convinto che qualche altra soddisfazione me la sarei tolta. Ora vincono competizioni anche a 42 anni».
Che differenze ci sono tra gli atleti di oggi e quelli della sua generazione?
«Prima di tutto sono identità singole, noi eravamo un gruppo. Ora sono molto influenzati dai social. Hanno visibilità anche se non ottengono risultati, per noi era l’opposto: avevamo visibilità solo grazie ai risultati. Se avessi fatto la mia famosa spaccata ora, il video sarebbe diventato virale con milioni e milioni di visualizzazioni e avrei chissà quanti follower in tutto il mondo, ne sono certo. Dal punto di vista prestazionale, devi curare ogni minimo dettaglio perché i distacchi sono davvero infinitesimali, vanno davvero tanto forte. Devi essere al top in tutto: condizione mentale, condizione fisica, materiali, non è ammesso l’errore. Noi eravamo più spontanei».
Errori che purtroppo a volte portano a conseguenze estreme come le morti di Matilde Lorenzi e Matteo Franzoso.
«Questo è uno sport pericoloso, corri dei rischi e ne sei consapevole. I materiali sono molto performanti, è più facile fare una “spigolata” e quando cadi otto volte su dieci ti fai male. Dato che non è possibile tornare a materiali più obsoleti o bardare gli atleti come cavalieri medievali con le armature, è necessario lavorare sulla sicurezza, sulle reti e sugli spazi di fuga, se l’avessero fatto non ci sarebbero state queste due tragedie».
È padre di due bambini: “teme” che seguano le sue orme sugli sci o lo desidera?
«Natan, che ora ha cinque anni, la prima volta che l’ho messo sugli sci ha buttato via tutta l’attrezzatura. Scarponi, sci, caschetto, piangendo e strillando, e io sono rimasto lì chiedendomi: “ma come?”. Tempo fa abbiamo riprovato e sembra che gli sia piaciuto un po’ di più. Brayan è ancora troppo piccolo. Sicuramente non sono un padre fanatico, farò praticare loro più discipline e se decideranno di farne una professione dovranno essere consci che non è tutto oro quello che luccica e che il sacrificio è fondamentale per ottenere i risultati. E adesso aspettiamo solo che cada la prima neve».