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 2025  ottobre 21 Martedì calendario

Intervista a Franco Pepe

Franco Pepe, Phaidon le dedica un libro, «Pizza Chef», che esce il 29 ottobre in quattro lingue. La prima volta per un pizzaiolo.
«Infatti penso che ci sia mio padre che mi guarda da lassù, incredulo anche lui! Sono felicissimo. In questo libro racconto la mia vita, la mia famiglia e la filiera di 40 produttori che si è creata attorno alla pizzeria «Pepe in Grani» a Caiazzo. È un libro sul territorio, la provincia di Caserta e la Campania, con cui consegno le mie ricette al mondo. Un dono alle nuove generazioni: mi scrivono in tanti per sapere come lavoro, svelo tutto».
Qual è il suo segreto?
«L’impasto: per un pizzaiolo è la sua identità. L’ho imparato da mio papà Stefano quando gli davo una mano nella pizzeria di famiglia. Vedevo che lui mescolava farine di vario tipo a occhio, lì ho capito che era meglio creare un blend. Ogni tanto avevamo dei problemi, i macinati perdevano qualità: con la sua Opel Kadett quanti giri per mulini ci siamo fatti... Alla fine ho trovato il mio blend, lo Zero Pepe, me lo fa il Molino Piantoni in Franciacorta. Papà sarebbe felicissimo di vedere che ho un impasto mio».
Nomina molto suo padre.
«Lui è sempre con me, io ci parlo. È morto all’improvviso lo stesso giorno in cui è nato mio figlio: emozioni così sono difficili da reggere».
E poi cosa è successo?
«La mia vita è andata in pezzi: era il 1996, avevo 33 anni ed ero insegnante di educazione fisica la mattina, aiuto pizzaiolo la sera. Dopo la morte di papà, con la mamma e i miei due fratelli abbiamo gestito la pizzeria per parecchi anni. Il pizzaiolo ero io: un lavoro usurante, a volte volevo farmi male alle mani per smettere. In cuor mio avevo una visione diversa: volevo fare ricerca, nel giorno libero prendevo l’impasto e andavo a Roma, dallo chef Antonello Colonna, a cucinare. Mi inventavo farciture per la pizza fritta: avrei voluto ricrearle al locale, ma la mia famiglia non era d’accordo. Me ne andai».
Nacque «Pepe in grani».
«Sì, nello stesso paese della pizzeria di papà, in un vicolo disabitato. Ho aperto il 14 ottobre 2012: tutti mi davano del pazzo ma io volevo restituire dignità al mestiere del pizzaiolo. Volevo immaginare un modo di lavorare diverso. All’inizio ero senza soldi: ho chiesto a sette ragazzi che avevo conosciuto insegnando all’alberghiero di seguirmi, ammettendo di non sapere quando li avrei potuti pagare. Oggi sono ancora con me, si sono sposati, hanno comprato casa. La mia famiglia d’origine a quel punto non mi parlava più. Poco dopo anche io e mia moglie ci siamo separati».
Come ha reagito?
«Sono quasi andato in depressione. Ero solo con le mie idee, ho trovato forza in quelle. Abitavo in un appartamento minuscolo sopra la nuova pizzeria, la cucina non l’ho mai usata se non per farmi il caffè al mattino. Vivevo per lavorare: 18-19 ore al giorno. Nonostante il mio stato d’animo, le cose sono partite subito. Quante volte sorridevo a un evento ma dentro di me piangevo: avevo perso tutto».
Chi l’ha aiutata?
«Gli amici, tra cui alcuni psicologi: mi hanno detto che dovevo prendermi cura anche di Francesco, non solo di Franco Pepe il pizzaiolo. Ora ci sto attento a Francesco, alla mia dimensione privata, e la cosa più bella è che ho recuperato il rapporto con i figli».
Stefano e Francesca ora lavorano con lei.
«La mia gioia: Stefano è pizzaiolo, Francesca cura la comunicazione. Sono anche riuscito a riavere un rapporto con uno dei miei fratelli».
Il primo a credere in lei?
«Luigi Veronelli, il giornalista enogastronomico. Venne da me con l’ex direttrice del Mattino Manuela Piancastelli. Era il 2004, stavo nella pizzeria vecchia: gli feci un calzone con la scarola riccia cruda, come quello che mio padre si preparava quando voleva bere un calice di vino. Lui fece scrivere a Manuela tre pagine sulla rivista EV Veronelli. Lo scoprii mesi dopo».
La svolta internazionale?
«Nel 2014 grazie al giornalista americano Johnathan Gold, che scrisse di me su Food&Wine: “Probabilmente la pizza più buona del mondo”. Tre anni fa è arrivato Netflix».
Oggi Caiazzo è presa d’assalto per la sua pizzeria.
«Ho le prenotazioni bloccate da qui a tre mesi, ogni giorno arrivano persone di 10-12 nazionalità diverse. Facciamo 12 mila coperti e 24 mila pizze al mese, però il lavoro è spalmato su un team di 13/15 ragazzi. I tassisti di Napoli mi adorano: la corsa per venire da me costa 260 euro».

La cifra più folle che ha ricevuto per un evento?
«A Las Vegas, dopo una lezione, ho servito uno spicchio di margherita sbagliata (mozzarella, pomodoro e riduzione di basilico): l’hanno pagata 270 euro a testa, in 300. In Canada una degustazione di sette spicchi delle mie pizze è costata mille dollari a persona».

Spesso anche i grandi chef vengono a cena da lei.
«Ducasse ha preso un jet privato da Parigi per cenare a Caiazzo. Ne vado fiero».
Lo chef Davide Scabin l’ha accusata di aver copiato un suo piatto, la Zuppizza.
«Giuro che non lo conoscevo, ma mi lusinga se la mia Ricordo di uno sbaglio, per altro ideata solo per un evento, gli ha fatto venire questo pensiero: vuol dire che ragioniamo allo stesso modo».
«Pizza chef», il titolo del libro, che cosa significa?
«Che oltre alla competenza sugli impasti un pizzaiolo dovrebbe avere anche quella sulle materie prime per la farcitura. Ci dovrebbe essere una cucina applicata alla pizza. Purtroppo vedo ancora errori pazzeschi, gente che inforna il basilico a 400 gradi. Il mondo della pizza è in confusione».
Perché?
«Ormai è oggetto di premi e classifiche. Benissimo, ma non basta: serve più cultura alla base di questo mestiere. Bisogna formare i pizzaioli del futuro. Spesso si confonde la creatività con la conoscenza: oggi si pensa al topping “figo” e ci si dimentica che la pizza è prima di tutto un impasto, un equilibrio di tecniche e temperature».
Eppure anche la pizza sta diventando elitaria, costa sempre di più.
«Un errore: la pizza deve restare popolare. Chi viene da me trova quella a libretto a 2,50 euro, poi può fare la degustazione completa e spendere di più, ma in una pizzeria devono poter entrare tutti».
È Cavaliere al Merito e Cavaliere Ufficiale della Repubblica italiana: che presidenti ha conosciuto?
«Sia Napolitano che Mattarella. Sono stato il pizzaiolo dei presidenti: quindici anni fa mi chiedevano degustazioni private per Napolitano e sua moglie. Una volta lasciai sul tavolo dei biscottini al vino, olio e nocciole, li chiamavo i biscottini di nonna Amelia. Al Presidente piacquero così tanto che se li portò in ufficio la mattina dopo, e da allora sono diventati i biscottini del presidente. Quando si insediò Mattarella li feci anche a lui: mi mandò una lettera per ringraziarmi».
E Re Carlo III?
«Mi ha invitato a cena nella sua tenuta di Highgrove, a febbraio, insieme a ottanta persone da tutto il mondo: conosceva il progetto con i produttori, mi ha stretto la mano».
Quest’anno Meloni l’ha proclamata «Maestro dell’arte della pizza italiana».
«Un onore: mi batterò per un riconoscimento giuridico del mestiere di pizzaiolo».
È un lavoro ambito oggi?
«Più di 15 anni fa, quando fare il pizzaiolo significava riparare un fallimento professionale. Ma non abbastanza: finché nelle scuole alberghiere non ci sarà un percorso serio nulla cambierà».
Un sogno nel cassetto?
«Vivere con serenità, godendomi i miei figli. Mio padre si prese la prima vacanza dopo 26 anni, non ricordo un momento con lui che non fosse in pizzeria. Non voglio fare lo stesso».
Qualcosa che le fa paura?
«Ammalarmi di nuovo: ho avuto un tumore all’inguine sette anni fa, me ne sono accorto perché mi è venuta una fitta salendo in bici. Credo sia stato mio padre a mandarmi il segno: di sicuro mi guarda da lassù. Papà, sei fiero di me?».