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 2025  ottobre 19 Domenica calendario

Intervista a Pupi Avati

È un bellissimo libro di rimorsi quello che Pupi Avati ha scritto, credo in un momento di particolare grazia. Occorre consapevolezza dei propri errori, altrettanta pazienza con se stessi e molta onestà per raccontarsi nei dettagli, a volte malinconici o gioiosi, e alla fine sapere che solo dal mettere a nudo il proprio essere stati imbranati, incerti, timorosi, vaniloquenti, vulnerabili può venire una qualche forma di tardiva e impietosa verità. Solo attraversando il sacrificio di sé – al limite dell’autodenigrazione – può risplendere la considerazione per l’altro. Questa lunga confessione – che intimamente accompagna Rinnamorarsi (edito da Solferino, sarà presentato al Festival Moby Dick di Terranuova Bracciolini, vicino ad Arezzo, il 26 ottobre) – sembra una lettera d’amore mai spedita a una moglie, al cinema, a se stesso. Niente lacrime verrebbe da aggiungere. Perché a 86 anni l’avatar di Avati ha parlato come un vecchio saggio che cosparge il capo di ironia, in un viaggio, come ama dire, «verso il nulla».
C’è qualcosa che vorresti trattenere prima che il nulla inghiotta tutto?
«Vorrei essere capito. A cominciare da mia moglie, cui questo libro è dedicato. Ma so che non lo leggerà».
Perché non dovrebbe leggerlo? In fondo parla di lei, di voi.
«Perché non crederà mai a quello che ho scritto. Continuerà a pensare che sono un uomo sleale».
E questa slealtà ti perseguita come un rimorso.
«Ho creduto di aver scritto un libro pieno di rammarico e di risentimento verso un mondo che ha cancellato le competenze. Il rimorso non ti fa dormire la notte e io, ti confesso, dormo abbastanza bene».
C’è differenza tra rimorso e rammarico?
«Il rammarico è una buona azione che non sei riuscito a compiere quando potevi farla, il rimorso è solo una cattiva azione che non volevi fare e che hai fatto. Credo di aver camminato in equilibrio su entrambi questi fili invisibili. E l’ho fatto per una nostalgia pazzesca del me stesso che ero».
E com’eri?
«Sono stato, e forse continuo ad essere, al tempo stesso egoista e timido. Ma alla fine ho fatto della mia inadeguatezza il punto di forza. Dovevo arrivare a 86 anni, essere vecchio e non immaginare solo di esserlo, per poter parlare della mia vita».
Non nascondi i fallimenti.
«Mi diverte raccontare le mie “cadute”. Pensa che noia se dovessi snocciolare i successi, oltretutto così avari che esaurirei rapidamente il repertorio della mia vita. Ma è anche una tecnica comunicativa. Me la insegnò Ugo Tognazzi. Fu lui a dirmi quanto fosse importante autocommiserarsi, al limite dall’autoflagellazione. La prima volta che ci vedemmo mi confessò, senza alcun imbarazzo, che aveva fatto cilecca con una certa Ines, una modella francese che aveva conosciuto».
Tu come reagisti?
«Capii che voleva sentirsi dire qualcosa di altrettanto personale. Fu così che diventammo subito amici.
Entrambi mettemmo a nudo la nostra parte più vulnerabile».
Nel definirti “vecchio” cosa hai scoperto che non ti aspettavi?
«Ho ripreso a mangiare le caramelle. Uno psicoanalista direbbe che è la via più breve per tornare bambino».
Com’eri da bambino?
«Ero bello e poi improvvisamente mi sono accorto di non esserlo più. Il dramma ha scatenato la timidezza ed esasperato la mia goffaggine. Mentre avevo sotto gli occhi la bellezza irraggiungibile di mio padre, mi vedevo sempre più simile a mia madre, che veniva da una famiglia umile e aveva preso, a costo di grandi sacrifici, il diploma di dattilografa».
Mentre tuo padre?
«Era figlio di un antiquario di Bologna. Passava le sue giornate in negozio, sul divano, a organizzare le serate con le belle di turno, curando il suo guardaroba come un dandy. Se fossi stato donna mi sarei potuto invaghire di quest’uomo affascinante e competente di arte».
Racconti che morì in un incidente stradale.
«Aveva solo 45 anni. Morì nello stesso punto dove era stato assassinato il padre di Giovanni Pascoli. Ricordi la poesia, La cavalla storna?»
Pascoli restò a lungo turbato da quell’episodio. E tu?
«La sua morte mi ha tolto delle cose. Mi è mancata soprattutto la sua disinvoltura. Pensa che per anni ho calzato i suoi mocassini e messo le sue cravatte. Volevo essere elegante come lui. Naturalmente senza riuscirci. Ogni tanto mi chiedevo cosa avrebbe pensato delle mie decisioni. Cosa avrebbe detto, ad esempio, della mia scelta azzardata di fare cinema. Forse avrebbe riso o forse sarebbe rimasto sorpreso. Non lo so».
Hai iniziato a fare cinema relativamente tardi. Prima ti sei dato al jazz, hai messo su una band, hai suonato il clarinetto nei locali...
«Una grande passione, al punto da farne una professione. Sai la cosa che oggi più mi tormenta?».
Immagino averci rinunciato.
«Non credo di aver avuto un talento che mi avrebbe permesso di durare nel tempo. No, a dispiacermi è la scomparsa quasi in contemporanea dei tre amici con cui ho suonato per anni: Gherardo, Mario e Marcello. Cominciammo da ragazzi e se ne sono andati questo agosto. Non so perché gli amici muoiono sempre d’estate. Se ne vanno e portano con sé porzioni segrete delle nostre vite. Ho una stanza che raramente apro a chi non è di casa».
Cosa c’è in quella stanza?
«Tra vari oggetti e libri accatastati c’è l’angolo di una parete vicino alla finestra che ho chiamato la “Via degli Angeli”. Ho raccolto tutte le foto dei tanti amici e parenti scomparsi, le persone che hanno contato nella mia vita. Testimonio loro la mia riconoscenza. Di più: la mia devozione».
In fondo la tua “Via degli Angeli” pubblica l’hai realizzata con i tuoi film. Quanti sono?
«Mi pare cinquantasei».
Come sei passato dal jazz al cinema?
«Beh, in mezzo c’è stata la mia avventura nei surgelati. Ho lavorato per quattro anni come responsabile della Findus per l’Emilia e Romagna e per le Marche. Un impiego che mi ha dato agiatezza e mi ha permesso di sposare la donna con cui vivo da sessant’anni».
Tra alti e bassi, come racconti nel libro.
«Uno dei lati peggiori di me è la gelosia. Una gelosia morbosa che mi ha perseguitato nel rapporto con mia moglie. Vedevo tradimenti ovunque. Un inferno».
Invece eri tu che la tradivi?

«Diciamo che a un certo punto il tardivo successo cinematografico mi ha dato alla testa».
Mi incuriosisce il tuo esordio, con un film intitolato “Balsamus, l’uomo di Satana”.
«Ho iniziato a fare cinema quando ho capito che i bastoncini di pesce non fanno di te un uomo realizzato. Seguivo il cinema da spettatore, non mi perdevo un cineforum in quel di Bologna. Poi quando vidi 8 ½ di Fellini mi fu chiara quale avrebbe dovuto essere la mia strada».
E così girasti nel 1968 “Balsamus”.
«Purtroppo, perché fu un grande disastro. Il film successivo fu perfino peggio».
Cosa non avevi capito? Cosa non aveva funzionato?
«La mia gigantesca presunzione intellettuale mi spingeva verso un cinema contorto. A quell’epoca ero rimasto stregato dalla lettura di Opera aperta di Umberto Eco. Quel libro dava al lettore, e per estensione al pubblico, la possibilità di interpretare l’opera a proprio piacimento. Almeno questo avevo capito. Quindi adottai la tecnica del dire e non dire. Del “sbrigatevela un po’ voi”».
Risultato?
«Il film incassò quasi nulla. E quel che è peggio il secondo film non fu neanche distribuito».

Godi nel raccontare le tue disavventure.
«Non potevo più girare per le strade di Bologna. Nel mio solito bar ero oggetto di dileggio. Dovetti al quel punto scappare a Roma. La provincia non perdona. A Roma mi consigliarono di cambiare nome».
Visti i primi risultati perché ti ostinavi a voler fare cinema?
«Che altro avrei potuto fare, tornare ai surgelati? Tieni conto che la mia folgorazione per il cinema aveva completamente stravolto la mia famiglia: i figli, mia moglie, mio fratello. Ero guardato come un demente che avrebbe trascinato tutti nella rovina. La sola, ingenua, a credere nelle mie doti fu mia madre. E poi ho capito perché. Quando è morta, cosa che non le ho mai perdonato, ho scoperto nei suoi diari che invece della dattilografa avrebbe voluto fare l’attrice».
A Roma chi vedevi?
«Cercavo di darmi da fare in un città aperta solo all’apparenza. Chi vedevo? Una persona che mi ha aiutato è stata Laura Betti: le sue cene alle quali partecipavo, erano sempre ben frequentate. Moravia, Siciliano, Pasolini. Grandi discorsi. Cascate di intelligenza, di novità letterarie e io lì taciturno ad ascoltare nella tipica soggezione del provinciale. Ma adoravo Laura, le bizzarrie, il talento, le sue lasagne».
Un episodio alle origini della tua carriera di regista fu l’incontro con Helmut Berger.
«Ero ancora nella fase dell’esaltazione creativa. Pensai a un film sulla vita di Rodolfo Valentino. Il produttore sembrò interessato e io suggerii, per la sua nota ambiguità sessuale, Helmut Berger come interprete. Realizzammo l’incontro e gli spiegai cosa avrei voluto fare».
Dove eravate?
«In un circolo privato, entrambi seduti fianco a fianco su un divano. Più parlavo e più avvicinava il suo viso al mio. Ti confesso che ero lusingato da quello che mi sembrava un sincero interesse per il mio progetto. Poi a un tratto afferrò con la mano la mia nuca e con gesto repentino mi infilò la lingua in bocca. Restai scioccato. La sola cosa che sentii fu l’urlo di mia moglie che mi aveva accompagnato. Nonostante il bacio Berger rifiutò di fare il film».

Hai patito molti no?
«Potevo non riceverli? Ma non ne ho sofferto più di tanto. So bene quanto il mio io avesse bisogno di farsi ingannare, per illudermi di essere ciò che non ero. La mia convinzione, ora mi rendo conto immotivata, è sempre stata di pensare di essere il “prescelto”. Non credo che altrimenti avrei fatto il regista. E alla fine so che quella carriera mi ha preservato dal terrore di finire nell’anonimato».
Dichiari la tua gelosia, il tuo bisogno di apparire. Con quali altri peccati convivi?
«L’invidia. Quando vedo o sento che qualcun altro fa un film, e per giunta ha successo, sprofondo in questo turpe sentimento: perché lui sì e io no? Ecco la domanda che mi perseguita».
D’accordo, ma hai fatto film bellissimi che resteranno nella storia del nostro cinema.
«Ma c’è sempre la paura di non farne altri. Ricordo le passeggiate notturne con Fellini, uno dei pochi a cui darei la patente di maestro. Avvertivo la sua amarezza, il suo risentimento per il mondo dei produttori e dei critici che gli avevano girato le spalle. Sentiva il fiato sul collo del suo personale viale del tramonto. Ti confesso che non ho mai capito perché le stagioni della creatività a un certo punto finiscono e subentra il deserto».
È la grazia che scende e poi se ne va.
«E a me non resta che scrivere della nostalgia di questo presente fatto di attimi trascorsi che si fissano e che la scrittura testimonia. Il mio libro è un modo per aprirmi agli altri attraverso l’idea che ci si può rinnamorare della donna che si è amata».
Un modo, anche questo, per rimettersi in gioco.
«Non lo so se uno alla mia età abbia voglia di rimettersi in gioco. Quando decidi di scrivere di te stesso, lo fai nella presunzione di come vorresti essere percepito. Per accattonare l’apprezzamento degli altri. Che è poi il limite di chi, come me, è rimasto infantile perché non si è mai affrancato da quei 17 anni in cui sono stato più Pupi Avati di tutto il resto della vita».