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 2025  ottobre 19 Domenica calendario

Il Teorema di PPP è dimostrato

Maestri, d’accordo, vanno mangiati in salsa piccante, ma la nostra cattiva digestione è la prova della loro attualità. Così, tra i molti episodi della vita di Pier Paolo Pasolini ancora in grado di metterci a disagio, ne ho uno mio preferito. È il 1968, e la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia viene travolta dalla protesta che è già esplosa a Cannes pochi mesi prima. In Francia registi come François Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Lelouch, Louis Malle si schierano contro la prosecuzione del festival. In Italia, tra gli altri, saranno Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Liliana Cavani a cercare di sabotare la mostra a cui loro stessi stanno per partecipare: in un periodo di rinnovamento tumultuoso, l’Associazione nazionale autori cinematografici, di cui i registi fanno parte, contesta i vecchi meccanismi competitivi della manifestazione.
Quell’anno a Venezia Pasolini porta Teorema, prodotto da Franco Rossellini. È un film a cui tiene molto. Inizialmente Pasolini non aderisce alla protesta. A pochi giorni dalla proiezione, cambia tuttavia idea. Lo statuto fascista della Biennale va certamente rinnovato, dice, e la contestazione può favorire il cambiamento. Molte sono le domande dei giornalisti su questo cambio di rotta, piuttosto evasive le risposte di Pasolini. Nonostante il clima di assoluta confusione che si crea di giorno in giorno intorno al Palazzo del Cinema (bombe carta, assemblee, tentativi di occupazione), la Biennale decide che le pellicole parteciperanno alla manifestazione, e nonostante Pasolini dichiari che per protesta non presenzierà alla prima del suo film, invitando giornalisti e critici cinematografici a seguirlo fuori dal cinema, Teorema viene ugualmente proiettato. Il film sarà pure dell’artista, ma chi decide è il produttore, cioè chi ci mette i soldi.
Poche ore dopo, Pasolini e Rossellini si presentano insieme a una conferenza stampa che si preannuncia interessante. Siamo nel parco di un grand hotel del Lido. Produttore e regista smorzano i toni, blandendosi un po’ da posizioni opposte. Giornalisti e commentatori ricordano a Pasolini che solo una parte di addetti ai lavori ha seguito il suo invito a disertare, la maggior parte ha visto il film. Cosa ne pensa? Risposta: «Quelli che sono rimasti in sala lo hanno fatto per ragioni professionali. Non me la sento di condannare chi non mi ha seguito contro il direttore del suo giornale, contro il suo salario, però sarebbe stato meglio se fossero usciti». «Mi spieghi, Pasolini», chiede un altro giornalista, «è contento che il suo film sia stato proiettato sotto la protezione della polizia che lei ha esaltato in una sua poesia di alcuni mesi fa?» Risposta: «Lei non ha letto o ha letto male quella poesia». È un crescendo. Finché uno dei presenti contesta a Pasolini la mancanza di una vera radicalità. Come mai ha consentito che Teorema venisse proiettato? Perché non ha fatto di tutto per impedirlo? Dov’è finito il suo coraggio? «Se voleva veramente che il suo film non si proiettasse, come mai stamane non s’è attaccato al sipario, non ha strappato lo schermo, come hanno fatto i registi francesi al Festival di Cannes, per interromperlo?». La replica è lapidaria: «Lei è uno di quegli uomini che pretende dagli altri la santità per coprire una cattiva coscienza».
Che risposta magnifica. Sottoporre l’altrui grandezza alla prova della santità per dimenticare la nostra piccineria: non è forse, tanti anni dopo, la situazione in cui siamo ancora incastrati con Pasolini? Cerchiamo le stimmate, e ci perdiamo ciò che conta. Abbiamo bisogno di miti per sollevarci dalle nostre responsabilità. Sappiamo da sempre cosa fare di queste figure. Una volta morte cerchiamo di trasformarle in dei santini, mentre da vive le sottoponiamo a uno sfiancante processo inquisitorio. Perché non ha fermato la proiezione? Come mai non si èappeso alle tende del cinema? Favorisca i palmi delle mani. Dove sono le stimmate? Eccolo, il coro dell’uomo medio italiano, più compatto oggi che allora. «Ma lei non sa cos’è un uomo medio – aveva del resto fatto dire P.P.P. a Orson Welles, rivolto a un giornalista, in una celebre scena de La ricotta cinque anni prima, nel 1963 – è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista. Tanto lei non esiste.
Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione, e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale. Addio!». Disperso il coro idiota di personaggi inesistenti eppure capaci, tutti insieme, di definire un ecosistema culturale (si tratti di giornalisti borghesi o di attivisti radicali, oggi pericolosamente più vicini sul piano antropologico, «mi domando che madri avete avuto» è in fondo una scomunica che resiste al tempo) all’artista, già inquisito sul piano della santità, restano le grane legali. Il successo (diceva Pasolini a chi gli rinfacciava anche questo) è l’altro lato della persecuzione. Dopo essere stato attaccato ferocemente dalle frange più conservatrici della cultura italiana, Teorema viene sequestrato dalla procura di Roma «per oscenità e per le diverse scene di amplessi carnali alcune delle quali particolarmente lascive e libidinose e per i rapporti omosessuali tra un ospite e un membro della famiglia che lo ospitava». Il pubblico ministero chiede la distruzione dell’opera. Pasolini sarà alla fine assolto, e il film salvato, ma il caso sollevato su Teorema è solo l’ennesimo attacco sferrato dall’Italia a uno dei suoi più grandi e problematici cantori.
Trentatré sarà il numero dei processi celebrati contro Pasolini (tra le accuse ci sono oscenità, corruzione di minore, vilipendio della religione di Stato, ricettazione, istigazione alla disobbedienza della disciplina militare… addirittura una tentata rapina: nel 1961 un benzinaio di San Felice Circeo accusò lo scrittore di avergli puntato contro allo scopo di derubarlo una pistola «caricata con un proiettile d’oro») ma, come ebbe a scrivere Stefano Rodotà, si tratta in fondo di «un processo solo, ininterrotto per almeno vent’anni, che si gonfia e si arricchisce, si dirama e si ritrae, sempre con lo stesso oggetto e la stessa finalità, mettere in dubbio la legittimità dell’esistenza di una personalità come Pasolini nella società e nella cultura italiana. Pasolini è la somma di tutti i vizi, incarna il sogno di chi vorrebbe il Male con una sola testa per decapitarlo con un colpo solo».  Che cos’è il santo di cui necessitiamo per sopportare la nostra mediocrità, se non un mostro fino a prova contraria? La sottrazione di quella prova è stato l’oggetto dell’inesausto corpo a corpo tra Pasolini e l’Italia. 
Trentatré processi, dicevamo, altrettante assoluzioni, un numero carognescamente più alto di procedimenti, attacchi di ogni tipo. Alle offese Pasolini rispondeva in modo sempre più polemico, ferito, apocalittico con le poesie, i romanzi, i film, gli editoriali. Accusava l’Italia di essere «terra di infanti, affamati, corrotti, governanti impiegati di agrari, prefetti codini, avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi, funzionari liberali carogne come gli zii bigotti», portando la sua invettiva – vero genere nazionale capace di perdurare secoli – verso vette dantesche: «sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo». Pasolini trascina alla sbarra l’Italia sul piano simbolico mentre viene trascinato alla sbarra dall’Italia in modo letterale, dando forma a una narrazione che – dopo aver cercato illusoriamente una salvezza, una trasfigurazione – si rivelerà un inquietante rituale mortifero, destinato a scaraventarsi fuori dalle aule di tribunale, dalle redazioni giornalistiche, dalle case editrici, per compiersi di notte, oltre il cerchio della polis. 
Nel Ramo d’oro di James Frazer troviamo il sacrificio del Re del Bosco, al tempo stesso figura regale, sacerdote e vittima. Il re-sacerdote incarna la forza vitale della natura e garantisce la fertilità. Quando inizia a invecchiare e a indebolirsi, la sua morte è necessaria per trasferire il potere a un successore più giovane e vigoroso. Pasolini era un santo-mostro, e anche un sacerdote traboccante di energie, al tempo stesso era uno scandalo vivente (il feto-adulto di una delle sue poesie più celebri), un figlio eternamente tradito, non un padre, capace di catalizzare su di sé (sul proprio corpo) non il trionfo né il ricambio ma la crisi, la tragedia di un’intera epoca. La sua morte non può essere dunque un passaggio di testimone (nato «dalle viscere di una donna morta», i suoi fratelli abitano il passato, sono fantasmi, i figli non esistono) ma un violento capolinea dopo il quale, per chi resta, si apre il deserto e il silenzio. 
Quello che siamo costretti a guardare nella fine del poeta è così un’oscura allegoria – il cadavere insepolto del Paese – e una profezia che, solo tre anni dopo, si compirà in modo ineludibile a livello istituzionale (dall’Idroscalo di Ostia a via Caetani, dal margine al centro, dai segreti della notte alla pornografia del giorno) con il cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4.