il venerdì, 17 ottobre 2025
L’ultimo giorno del Beaubourg
Ahmed gestisce insieme a suo padre un negozio a poche decine di metri dal Centre Pompidou, o Beaubourg, dal nome del quartiere – come l’hanno sempre chiamato i parigini. Ha appena compiuto diciotto anni e, da quando è nato, ha davanti agli occhi quello che Francis Ponge definì un cuore nel cuore di Parigi. O meglio, «una pompa aspirante e premente, dai battiti ininterrotti. Un movimento, più che un monumento».
È una serata di fine settembre: entrambi, genitore e figlio, osservano dall’esterno l’enorme struttura di tubi. Alla domanda se l’abbiano mai visitata, si guardano e rispondono di no. Poi Omar, il padre, si illumina: «Sì, una volta, con un amico, anni fa. Non è una buona cosa che chiude», commenta accendendosi una sigaretta.
Gestisce quest’attività di cartoline, calamite da frigo con su scritto I love Pompidou e riproduzioni fasulle d’opere d’arte da più di vent’anni. Il museo, a breve, di anni ne compirà cinquanta e poco importa se non è proprio corretto dire che abbia chiuso – perché sì, di fatto ha chiuso, ma solo per cinque anni e solo per adattarsi ai tempi che corrono. Poi, riaprirà. Ma il restauro, è chiaro, comporterà conseguenze non solo per la vita culturale, ma anche per l’insieme del tessuto cittadino del centro di Parigi. E, ironia della sorte, i lavori coincideranno parzialmente col restauro dell’altro mostro sacro della città: il Louvre.
Top secret
Per capire la portata dell’evento, il Beaubourg è stato visitato negli anni da oltre 250 milioni di persone. Il 40 per cento turisti e il resto, ci dicono con orgoglio dal museo, parigini. Per un momento si era addirittura pensato di ristrutturarlo gradualmente, lasciando le porte aperte ai visitatori. «Alla fine, per garantire l’efficacia dei lavori, in particolare l’aspetto cruciale della bonifica dall’amianto, è stato deciso che questa trasformazione avrebbe richiesto la chiusura totale», ci dice Laurent Le Bon, presidente del museo.
Scelta, spiega, sicuramente impegnativa, ma che offre un’opportunità storica: quella di ripensare in profondità la struttura. I lavori a sito chiuso sarebbero anche meno costosi, meno rischiosi e di durata più breve: cinque anni rispetto ai sette previsti a porte aperte. Oggi, è praticamente deserto.
La Bibliothèque publique d’information è rimasta aperta fino allo scorso 22 settembre con la mostra dell’artista tedesco Wolfgang Tillmans. Come potete vedere, lo abbiamo visitato in un’occasione speciale: gli ultimi istanti nella sua veste ufficiale. Inutile dire che camminare nei piani del museo totalmente deserto, dopo averlo visto stracolmo di gente, chiassoso, con le pareti tappezzate d’arte, è un’esperienza quasi mistica. A tratti commovente. Come la vista di un cuore disegnato con un pennarello su un pannello, e chissà – si immagina – quale opera lo copriva, qualche settimana fa.
Quel che è certo è che la collezione del museo, che ospita capolavori di Picasso, Matisse, Kandinsky, Chagall, Léger e Delaunay e oltre centomila altre opere d’arte, da qualche mese è stata trasferita in una località top secret a Nord di Parigi. A domanda, gli addetti sorridono cambiando discorso. Tra le scale fino a poco fa gremite di gente e i corridoi deserti, si cammina col terrore di calpestare qualcosa che potrebbe essere un pezzo d’arte dimenticato durante il trasloco. E la vista su Parigi, di solito condivisa con centinaia di altri visitatori, in solitaria offre uno scenario di una bellezza che quasi fa paura: le sirene della polizia, i tetti, la Torre Eiffel in lontananza, le voci dalla strada. Un paesaggio che fa capire come questo edificio sia diventato, negli anni, un simbolo architettonico unico, tanto che il Times ne parlò come del design che «ha rovesciato l’architettura mondiale».
Come in piazza
Il Pompidou fu concepito all’inizio degli anni Settanta da Richard Rogers e Renzo Piano, dopo che il presidente francese, Georges Pompidou, si era messo in testa l’idea di dotare la città di un centro dedicato all’arte contemporanea aperto a tutti. Inaugurato nel 1977, l’edificio ha rivoluzionato il concetto di museo: non più tempio chiuso e solenne, ma piazza culturale, con la sua struttura industriale a tubi colorati – i gialli per la corrente elettrica, i rossi per gli ascensori e le scale mobili, i verdi per l’acqua e i blu per l’aria.
Oggi, alla guida del progetto Centre Pompidou 2030, c’è lo studio Moreau Kusunoki, di Nicolas Moreau e Hiroko Kusunoki. I lavori, i cui costi si aggireranno attorno ai 400 milioni di euro, verteranno principalmente sull’eliminazione dell’amianto e sulla riduzione del consumo energetico. «L’intervento punta soprattutto a riscoprire e valorizzare la generosità della visione originale» ci dicono i due architetti, entusiasti di cominciare.
«L’idea è quella di ristabilire connessioni, sia visive che fisiche, tra i diversi programmi del complesso. Introdurremo nuovi elementi che permetteranno agli spazi di dialogare tra loro e di aprirsi maggiormente verso la città». In tutto ciò, la luce naturale giocherà un ruolo chiave: accompagnerà i percorsi e renderà, parole loro, l’esperienza «più accogliente e coinvolgente». In fondo, uno degli obiettivi principali sembra quello di portare un po’ di città dentro l’edificio o, meglio ancora, «far sì che il Pompidou diventi un’estensione viva e aperta dello spazio urbano».
Durante il restauro, alcuni capolavori faranno una sorta di tour in altre istituzioni, altri saranno esposti nelle sedi del museo sparse per il mondo e altri ancora visitabili, tra poco meno di un anno, in un deposito in costruzione che si chiamerà Pompidou Francilien, a mezz’ora dalla capitale.
«Il contesto sociale e culturale, profondamente mutato dopo l’apertura del Centre quasi cinquant’anni fa, rende questa trasformazione molto più di una semplice ristrutturazione architettonica. Ci riallacciamo allo slancio visionario del 1977», fa eco ai due architetti il presidente Le Bon. Il concorso, oltre allo Studio Moreau Kusunoki, è stato vinto anche dai messicani di Frida Escobedo e dagli ingegneri di AIA Life. Anche Renzo Piano e Richard Rogers, che avevano fondato il loro studio nel 1970, vinsero l’appalto tramite un concorso pubblico. E oggi che il Pompidou sarà dichiarato monumento storico della città, Piano ha dato il suo via libera. Stando alle sue dichiarazioni, i nuovi architetti hanno compreso pienamente lo spirito del museo. Del resto, parole sue, l’edificio è stato concepito come un’opera che deve necessariamente trasformarsi pur rimanendo fedele al suo spirito iniziale: «Questa struttura non ha mai lasciato indifferenti: alcuni l’hanno amata, altri l’hanno detestata fin dall’inizio. Oggi diciamo che quasi tutti l’hanno adottata» ha detto.
La retrospettiva di Tillmans è stata salutata da oltre 230 mila visitatori. Diecimila solo nell’ultimo giorno. Poi, a tarda sera, le luci si sono spente e il mattino successivo Ahmed e suo padre Omar non hanno trovato la solita fila ad attenderli. «Dobbiamo capire che inventarci» ci aveva detto Omar la sera prima. Mentre Ahmed, mostrandoci sul suo smartphone l’app di eBay, aveva aggiunto: «Sto mettendo su un piccolo mercato di oggetti legati al museo. Magari diventeremo ricchi».