la Repubblica, 20 ottobre 2025
Chi sono i fratelli Aboutaam: vita da mercanti d’arte tra affari, tragedie e un Picasso scomparso
Nelle fiere d’arte di mezzo mondo i nomi dei libanesi Hicham e Ali Aboutaam contano. Impeccabili in giacca e cravatta, padroni del linguaggio del collezionismo, i due fratelli si definiscono «custodi della cultura» più che mercanti. Gestiscono la Phoenix Ancient Art, tra Ginevra e New York, marchio simbolo dell’antiquariato internazionale fondato dal padre Suleiman negli anni Sessanta. Sul loro sito ricordano con orgoglio l’eredità di famiglia: opere finite al Louvre, al Metropolitan Museum of Art, al British Museum. «Dal 1968 preserviamo la bellezza dell’antico», scrivono.
Un’immagine patinata, perfetta per il mercato globale dell’arte. Ma la loro storia personale è segnata anche da una tragedia, nel 1998 la morte del padre e della madre in un incidente aereo in Canada. Nella dichiarazione di carico di quel volo, raccontano le cronache, figuravano un dipinto di Picasso, diamanti e gioielli. La compagnia Swissair risarcì gli eredi con duecento milioni di dollari. Da allora, i fratelli hanno trasformato quell’eredità in un impero dell’antico, tra mostre a Parigi, Londra e New York.
Ali Aboutaam, che vive a Ginevra, si presenta come un intenditore di arte antica. Per il suo lavoro in questo settore, il ministero della Cultura francese gli ha conferito a Parigi l’onorificenza di Chevalier des Arts et des Lettres.
Eppure, dietro quella vetrina scintillante, la giustizia torna a sfiorare gli Aboutaam. Non come persone fisiche. Nel mirino c’è la società che dirigono. Si tratta della Phoenix Ancient Art di Bruxelles, azienda citata nel decreto di sequestro preventivo firmato dal pm Stefano Opilio e confermato dai giudici del Riesame. L’indagine, coordinata dalla procura di Roma con i carabinieri del Tpc, riguarda il traffico illecito di 283 reperti archeologici di origine italiana. I reati ipotizzati sono ricettazione ed esportazione illecita di beni culturali.
Secondo gli atti, i reperti erano custoditi nei depositi della Phoenix a Bruxelles, già oggetto di un sequestro disposto dalle autorità belghe nell’ambito di un’indagine più ampia su oltre cinquecento antichità arrivate da ogni parte del mondo. Il decreto spiega che, dopo lo scavo abusivo, i manufatti venivano esportati e passavano «attraverso la disponibilità di noti trafficanti», fino a finire in gallerie e case d’asta. È qui che si innesta il nome Phoenix, società ritenuta uno dei canali attraverso i quali i reperti “riciclati” acquisivano una falsa provenienza legittima.
Non un’accusa diretta agli Aboutaam, ma un tassello che torna. Già in passato i due fratelli erano comparsi nelle carte giudiziarie: perquisizioni in Svizzera e Belgio, indagini in Egitto e Medio Oriente, la vicenda dei reperti mesopotamici trovati a Ginevra e poi restituiti. Nessuna condanna definitiva, nessun procedimento aperto oggi in Italia a loro carico. Ma la loro società, nel decreto, è al centro della scena.
L’inchiesta Steinhardt – quella che ha portato al sequestro in Belgio – li incrocia attraverso la compravendita di quattro reperti italiani venduti dal collezionista americano alla Phoenix di Bruxelles. È stato il punto di partenza che ha spinto la procura di Roma ad aprire un fascicolo e, con i colleghi belgi, a costituire una squadra investigativa comune.
Il gruppo Phoenix, spiegano gli atti, è un sistema di società tra Svizzera e Belgio, con filiali e gallerie a Ginevra, Bruxelles e New York. Accanto alla sede storica, la Phoenix gestisce anche la piattaforma e-Tiquities.com e una seconda galleria per giovani collezionisti, la Young Collectors. Ora, il loro nome torna in un atto giudiziario italiano, non come imputati ma come custodi di un marchio che le indagini associano a un flusso di opere trafugate. E se per loro si tratta di un’ennesima “coincidenza d’indagine”, per chi indaga è un altro tassello nella mappa del commercio illecito dell’archeologia italiana.