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 2025  ottobre 13 Lunedì calendario

C’è un’esperienza per tutto

Quando sono a Bologna ho l’abitudine di pranzare in un sedicente “laboratorio agricolo”: è un ennesimo nuovo appellativo, metà posizionamento hipster e metà mood centro sociale. Un laboratorio agricolo è un ristorante che serve solo ciò che coltiva. Mentre aspetto le mie polpette vegane mi incanto a osservare quante locandine sono dedicate a proposte di “cose da fare”. C’è un corso di ceramica, un nuovo gruppo di lettura, un workshop per la riparazione biciclette, un laboratorio di musica “papà-bimbo”, un corso di scrittura “autobiografica”. Si rinnovano continuamente.
Le potremmo genericamente definire “attività”, un tempo avremmo detto “per il tempo libero”, suffisso poi caduto in disuso: sarà perché abbiamo la sensazione di non averne, e anche averne è tutto sommato un po’ uno stigma? In ogni caso oggi il tempo non-più-libero deve essere impiegato in attività. Impiegare, nel linguaggio finanziario, è sinonimo di investire. Questo tesoretto di tempo assomiglia quindi sempre più a un conto corrente, che frutta interessi svariati, come ricordi, competenze di cui vantarsi, benessere mentale, following digitale, detox dagli schermi o socialità. Nel molto citato online Salvare il tempo: Alla scoperta di una vita oltre l’orologio, Jenny Odell si sforza di convincerci che non è obbligatorio far fruttare ogni minuto come se fossimo tutti asset manager di noi stessi. Non le abbiamo creduto, mi sa.
La presenza al bancone di offerte per l’investimento di tempo non mi meraviglia, peraltro. Già osservo schizzare i fatturati online delle nuove forme di viaggio di gruppo posizionate tra avventura, ricerca del sé e Tinder, delle gite gastronomiche alle cantine e ai birrifici, dei retreat pseudo-spirituali, dei live musicali (ricordate il dramma per il prezzo dei biglietti degli Oasis?), e dello sport (la maratona e il turbo fitness come religione di massa). L’economia contemporanea vanta un elenco lunghissimo di successi di forme di interscambio a metà tra culto e business, che ho descritto nel mio saggio Seguimi!
Dopo l’era dei prodotti e dei servizi, siamo entrati infatti ufficialmente in quella che il marketing chiama pomposamente Experience Economy. L’esperienza è, in pratica, tutto ciò che non serve a nulla dal punto di vista dell’homo oeconomicus, non ha né funzione pratica, né è davvero status symbol. Per questo gli economisti fanno ancora fatica a comprendere come possa valere ormai più del 22% del PIL globale, come si legge in un recente report Mastercard. Il marketing invece lo capisce molto bene: il pubblico che non vuole più “tempo libero”, ma solo “tempo da impiegare”, è un target perfetto: non giudica i costi, non questiona sul prezzo, valuta solo quanto se ne torna felice a casa. Tutto questo fa sì che il margine sia spesso alto, detto tra noi. 
Con i prodotti non è così: perfino Naturasì di recente ha dovuto spiegare che ben il 50% del prezzo finale rimane al produttore, e qualcuno ha perfino protestato. Con il terziario lo stesso: i clienti sono così assatanati dal risparmio di pochi euro al mese che le banche sono costrette a scannarsi sul conto corrente gratis (almeno, apparentemente gratis). Con le esperienze no: non chiederemmo mai al nostro insegnante di restauro mobili la sua struttura di costo. 
È in questo preciso momento della storia che si inseriscono perfettamente le micro-attività che vedevo appese al bancone del bio-ristorante agricolo. Vogliamo fare cose noi (che già trascorriamo metà della giornata sui social a scrollare gente che fa cose o gente che ci parla di come fare cose), vogliamo incontrare altre persone senza ausilio di algoritmi (o almeno, non solo), e spesso vogliamo avere una seconda possibilità di essere altro rispetto al ruolo che l’economia di mercato ci ha assegnato, e magari scoprire un nostro talento nascosto o seppellito dalla vita. E poi c’è un innegabile impoverimento generale (vero o percepito, per il marketer e per l’economista non fa differenza): per chi non può permettersi le aurore boreali ci sono le attività locali. 
Paradossalmente, molte di queste attività rientrano anche nel contemporaneo fenomeno della Nostalgia Economy (c’è una Economy per qualunque cosa) e quindi sono proprio gli algoritmi a consigliarcele. Su Tiktok “alcune persone mostrano attività che tradizionalmente sono praticate anche a livello amatoriale, come nel caso del falegname Califfo, che si definisce woodblogger e ha raccolto 328mila follower mostrando i suoi lavori e le sue tecniche”, si legge su Il Post. “Gli utenti di TikTok amano scoprire i resti di epoche passate, un periodo che per molti di loro potrebbe arrivare fino al primo decennio degli anni Duemila”.
Così l’alta marea dell’Experience Economy trascina verso l’alto anche la miriade di (spesso) improvvisati imprenditori, freelance, associazioni e cooperative, che magari non credono di produrre esperienza ma hanno capito quello che la gente vuole oggi. E così veniamo di nuovo attorniati dall’offerta, stavolta rigorosamente iperlocale, pubblicizzata con locandine e passaparola, e sufficientemente low cost (almeno rispetto all’aurora boreale). Sembra che il germe del fare che abbiamo contratto durante il Covid-19 (ricordate l’ossessione per pane, pizza, arredamento? lo chiamavamo nesting, farsi il nido da soli) una volta riaperti i cancelli abbia infettato qualsiasi cosa. È il nesting del tempo, non della casa.
Amanda Montell, in Cultish: The Language of Fanaticism, lo fotografa così: mai nella storia umana abbiamo avuto davanti un menù così vasto di possibilità. L’offerta di esperienze è come il menu di una catena fast-food in cui non riesci ad arrivare alla fine. Mancava un’ulteriore tipo di ansia, al consumatore contemporaneo. Prima il timore di sprecare il tempo, poi di scegliere l’esperienza sbagliata per troppa scelta. L’economia comportamentale indica come quest’ultima sia proporzionale, in effetti, al numero di alternative possibili. Il paradosso della scelta, descritto da Barry Schwartz, evidenzia come le troppe opzioni possano causare seri problemi psicologici, nonostante a priori disporre di una vasta scelta piaccia a tutti. La paura del rimpianto, aspettative troppo elevate, senso di colpa per non essere stati all’altezza: il tempo libero sembra diventato un perpetuo percorso universitario: scegli un esame e ti metti alla prova, e poi ricominci.
Solo rimanendo a Bologna, puoi imparare come creare con le tue mani una tazza dalla forma traballante da mostrare in ufficio (si sbriciolerà al primo ciclo di lavastoviglie, ma non importa) in almeno 300 corsi diversi di ceramica: rigorosamente in presenza, a gruppi di cinque o sei persone. Ma ci sono corsi di uncinetto, retreat in collina per raccogliere piante officinali guidati da una persona esperta (ne esiste oggi una per qualsiasi nicchia della nicchia), laboratori creativi di cucina [inserisci una tipologia di cucina qui], e ancora workshop di patchwork, che è utile (credo) per farti un maglione (di solito uscirà con una forma strana), corsi per riparare le biciclette e chissà cos’altro. Puoi tostare il caffè nel forno di casa, o imparare a curare l’orto (è la stessa materia di studio che insegna il mio ristorante, anzi, laboratorio agricolo) o ancora a restaurare mobili (che dopo un po’ vi sembreranno orribili e li regalerete a un mercatino dell’usato solidale, lo stesso che ha organizzato il corso di restauro). 
Se dovessi definire l’esperienza locale perfetta direi che: a) deve far usare più le mani che il cervello, per imparare qualcosa di “utile”, e compiere una mindfulness senza meditazione attraverso la concentrazione su di un chiodo e/o un martello; b) deve essere di sera o nel weekend: le agende serali devono essere riempite, perché – si ripete ancora e ancora sui magazine – lo scrolling infinito su Instagram e Tiktok provoca il brainrot, il binge watching su Netflix ti frigge il cervello, e così via. Bisogna fuggire dalla tentazione, e per farlo, debole di forza di volontà come sei, devi necessariamente uscire di casa. Certo, chi tiene i corsi deve lavorare fuori orario canonico, ma vabbè, qualcuno deve pur farlo; c) deve essere un’attività collettiva: perché lo si fa per conoscere persone nuove, più che per diventare dei maestri del restauro del mobile antico. (Ma sai mai? Serve anche per fornire un ideale e immaginaria, anche se poco probabile, via di fuga. Il negozio di restauratore di mobili è il nuovo chiringuito a Panama?). Del resto, Noreena Hertz, in The Lonely Century, sostiene che mai come oggi siamo così connessi digitalmente eppure così soli nella vita reale. Anche se capire quale sia la vita reale non è così facile.
Qualche mese fa, naturalmente colpito da un nuovo volantino al solito ristorante, ho partecipato a un breve corso introduttivo di restauro mobili, che prometteva di insegnarci a “ridare vita agli oggetti dimenticati”. Eravamo in otto, tutti principianti, un numero perfetto secondo la locandina per “creare un’atmosfera stimolante”. Pagamento brevi manu. Tutto procedeva bene, del resto qualcuno che ha come aspirazione quella di riparare mobili non può essere molesto, pensavo. Ci siamo presentati e pronti via iniziamo a levigare, imparo anche che esistono decine di carte vetrate diverse. Il maestro (che ho scoperto solo poi essere seguitissimo sui social, paradosso nel paradosso) spiega l’importanza della pazienza, ma anche di una particolare marca di vernice – sospetto che ne sia brand ambassador, ma potrebbe essere deformazione professionale. Ma già alla seconda lezione scoppia il primo conflitto: l’insopportabile Sara (nome di fantasia) sostiene (vado a memoria) che il metodo del maestro per trattare il legno di ciliegio fosse “troppo aggressivo” perché aveva visto un video su TikTok che lo sconsigliava, probabilmente del suddetto falegname Calippo. Se ne è trascinato un dibattito omnicanale, partito dal corso e continuato nel gruppo WhatsApp, in cui eravamo stati tutti inseriti d’ufficio per “coordinarci meglio”. Il gruppo ha visto già dopo qualche settimana micro-flame, incomprensioni sui turni per usare la levigatrice, uno scambio di accuse passivo aggressive su chi ha “dimenticato” di pulire i pennelli. Dopo una settimana ho dovuto silenziare il gruppo Whatsapp dei miei nuovi amici, e per fortuna che lo scopo era limitare gli schermi dalle nostre vite. 
Robert Putnam, nel suo ormai classico Bowling Alone, già nel 2000 documentava come gli americani continuavano a giocare a bowling ma preferivano ormai la partita solitaria. Venticinque anni dopo, abbiamo inventato la versione premium del bowling in compagnia, e include anche un nostro manufatto finale da portare a casa. Bisogna ammettere che non siamo (più?) capaci di stare in compagnia senza consumare (o produrre, in questo caso). Un sociologo potrebbe gridare al paradosso di questa galassia di micro-attività: sono nate (sotto sotto) per combattere la solitudine, ma spesso finiscono per replicare o sfruttare, in formato ridotto e a pagamento (modico, bisogna ammettere), gli stessi meccanismi capitalistici che contribuiscono a creare l’isolamento. 
Un articolo su Vogue Business (From sauna socials to run clubs: Are community event leaders the new influencers?) mi ha acceso una spia sul futuro che ci potremmo aspettare: i community leader saranno i maestri di arti e laboratori, e si affermeranno come i sostituti di influencer “tutto schermo e niente manualità”. Saranno loro a creare vere e proprie comunità attorno a corsi di ceramica, laboratori di restauro o ritiri in Appennino per la raccolta di piante officinali. La loro credibilità non deriverà dal numero di follower (non solo, almeno), ma dalla capacità di aggregare in un mondo sempre più frammentato. I consumatori, in particolare la gen Z e i late millennial, dicono le ricerche “sono attratti da forme di aggregazione più curate e autentiche dopo la pandemia, cercando spazi per la comunità e l’appartenenza”. E dove c’è attenzione e bisogno, ecco arrivare il marketing. Andrew Roth, fondatore di DCDX, un’agenzia che connette brand e micro-comunità, afferma che “le persone non sanno più cosa sia reale. Si costruisce fiducia in modi che non possono essere manipolati. L’interazione di persona è il vero valore aggiunto.” I brand, e non solo quelli di vernici, prendono nota.
Francamente, spero che il mio maestro di restauro mobili non diventi come il falegname Califfo, e che Sara non diventi la prossima Accorciabro del caso. Nel dubbio, credo che passerò alla ceramica: la tazza fatta da me da mostrare al coworking è una ricompensa allettante e un icebreaker di sicuro successo. Poi chissà, poi a un’altra attività ancora, del resto chissà cosa mi riserverà in futuro la lista nel bancone del mio ristorante.