Avvenire, 19 ottobre 2025
Dieci milioni di bambini nella trappola del Sudan
Sono sempre i bambini a pagare il prezzo più alto della guerra civile ignorata in Sudan, considerata all’unanimità causa della peggiore crisi umanitaria del pianeta. Secondo quanto dichiarato dall’Unicef all’emittente Al Jazeera, 4 bambini su 5 non vanno a scuola e un milione e mezzo vive in aree sull’orlo della carestia. Dopo quasi 29 mesi di guerra civile tra l’esercito sudanese e i paramilitari delle forze di supporto rapido (Rsf) metà dei 40 milioni di sudanesi ha bisogno di assistenza alimentare. Tra questi ci sono 10 milioni di bambini. In questo momento la situazione peggiore è nell’area di El Fasher, capitale del Nord Darfur e ultima roccaforte dell’esercito dello Stato ormai nelle mani delle forze di supporto rapido che da un anno e mezzo la stanno assestando.
Nella città ci sono anche 200mila civili intrappolati e ormai alla fame. Gli assediati impediscono il passaggio di cibo o aiuti umanitari a coloro che provano a fuggire, affermano le testimonianze raccolte dalle organizzazioni umanitarie, vengono rapiti, violentati e uccisi. A El Fasher, assediata da aprile 2024 (un anno dopo l’inizio della guerra) a oggi, sono stati mutilati e uccisi negli scontri oltre 1.000 bambini. L’ultimo rapporto della Ong African center for peace and justice sulla situazione dei diritti umani in Sudan negli ultimi tre mesi denuncia un drammatico aumento di vittime civili e di violazioni del diritto umanitario, in particolare numerose esecuzioni extra giudiziali, arresti e sparizioni di civili, detenzioni illegali di attivisti politici, difensori di diritti umani e giornalisti.
Anche questa è una guerra che si combatte sul corpo delle donne. Le organizzazioni internazionali e locali hanno documentato come nelle aree di combattimento lo stupro sia diventato un’arma di guerra. Le Rsf, composte da tribù sudanesi di origine araba, sono state accusate come nel 2003 di genocidio delle popolazioni africane che vogliono cacciare per creare una cintura araba dall’Atlantico al Mar Rosso. Le forze di supporto rapido sono appoggiate dagli Emirati Arabi Uniti.
L’accusa ribadita all’Onu dal governo sudanese è stata confermata da diverse inchieste giornalistiche e Ong. Gli ultimi atti di accusa contro Abu Dhabi sono firmati da Sentry, organizzazione a suo tempo creata da George Clooney, e dall’autorevole rivista Foreign Policy, che definiscono il sostegno degli Emirati come l’ostacolo più grosso alla fine della guerra. È di pochi giorni fa la proposta di tregua americana e saudita caduta nel vuoto. Abu Dhabi da mesi ha organizzato ponti aerei clandestini per rifornire gli ex Janjaweed con armi pesanti, artiglieria e droni via Ciad e Uganda su cargo camuffati da aerei umanitari con il simbolo della mezzaluna rossa. Motivo? L’ideologia non c’entra. Agli Emirati, hub di metà dell’oro africano di contrabbando, fanno gola le miniere del Darfur, le immense risorse agricole e i porti sul Mar Rosso.
La tragedia non riguarda solo El Fasher. Denise Brown che lavora per Unocha da Tawila, città rifugio degli sfollati dal Darfur, rivela che la situazione è simile anche in diverse aree del Kordofan «dove non possono entrare gli aiuti umanitari, la situazione dei civili è drammatica, proseguono gli stupri etnici e siamo sull’orlo della carestia». L’unica buona notizia dal Sudan è l’ondata di ritorno verso Khartum descritta dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni.
Almeno un milione di persone starebbero tornando nella capitale riconquistata lo scorso marzo e semidistrutta. Le prime scuole nonostante alcuni attacchi delle Rsf con i droni stanno riaprendo.