il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2025
Intervista a Riccardo Milani
Lei è Riccardo Milani o Frank Capra? “(Ride, a lungo) Quando mia moglie (Paola Cortellesi, ndr) ha letto sui giornali il paragone con Capra, mi ha guardato e, seria, ha sentenziato: ‘Beh, ci sta, il film è su un pastore…’”.
Riccardo Milani ha aperto la Festa del Cinema di Roma con il suo ultimo film, La vita va così, storia di un pastore sardo ostinato nel suo “no” davanti alle offerte milionarie di un colosso del real estate; un “no” contro il cemento, contro la privatizzazione del pubblico (“la spiaggia è di tutti”); un “no” nonostante il paese, quasi tutto il paese, sia contro di lui. La storia è vera. Il pastore è vero. Riccardo Milani è un regista e un uomo vero.
Santa ironia, ma il paragone resta.
Con Capra abbiamo sognato tutti e ci siamo innamorati del grande schermo, ma è un accostamento enorme, azzardatissimo; (ci pensa) io mi occupo di cinema per parlare con le persone, quindi cerco di farmi capire, di esprimere idee in cui credo.
È per l’inclusione quando spesso il cinema è stato ed è esclusivo.
È una questione culturale enorme che non attraversa solo il cinema; c’è una sorta di divisione: il cinema-cinema è quello che parla a pochi; il cinema è quello popolare; il pubblico-pubblico guarda i film di “qualità”; il pubblico, cosiddetto normale, è quello comune.
Lei dove sta?
Questo mestiere lo si deve affrontare per il pubblico, e basta. E il “pubblico” vuol dire “tutti”. Per questo sono contento quando nei cinema, a vedere i miei film, trovo persone che la pensano differentemente da me, perché se avessi solo persone consenzienti avrei fallito.
È un approccio alla vita.
Negli anni 70, quando mi formavo, eravamo felici anche se pochi.
Sembra un richiamo al Moretti di “mi troverò più a mio agio con una minoranza di persone…”.
Il discorso di Nanni era di sofferenza umana e culturale; in Caro diario ero il suo aiuto regista e in quell’occasione ho riflettuto a lungo sulle sue parole; un po’ come sul set del Portaborse, quando lo stesso Nanni (nei panni dell’onorevole Botero, ndr) pronuncia quella frase sull’umanità (“Bisogna amarla veramente molto l’umanità! Molto, molto. Perché gli uomini presi uno per uno sono insopportabili…”).
Quindi?
Credo sia giusto parlare a una maggioranza di persone, il confronto è necessario, e lo ripeto con grande rispetto e amore per Nanni, perché sono cresciuto anche con lui e gli devo tanto.
Negli anni 70 era per il compromesso storico?
Forse no, forse eravamo convinti di essere nel giusto.
Torniamo all’inclusione: è per questo che ha affidato la parte principale a un non attore – bravissimo – sardo?
Cercavo la credibilità massima e pastore non si diventa: esistono modi, movenze, linguaggio, automatismi. Un pastore sardo lo può interpretare solo un pastore sardo.
Non sarà stato semplice scovarlo.
Sono stato mesi in giro per la Sardegna, ne ho incontrati tanti, ho visto dove ancora vivono, con un caminetto acceso, senza acqua calda né corrente elettrica; con una vita arrangiata.
Gavino Ledda.
Nel centro-sud della Sardegna ho visto situazioni che non credo si siano distanziate molto da quella realtà, ma è una cultura; il nostro pastore sardo mi ha trasmesso la serenità di vivere in quel modo: senza acqua calda, con le finestre aperte, senza la possibilità di poterle chiudere, con il vento che entrava. Per lui era sufficiente.
Ignazio Loi come ha vissuto l’improvvisa fama?
Come un bambino. È un bambino. Ha quella purezza. Poi ha il rigore morale di un pastore, di un uomo di 84 anni; ripeteva solo “sono felice” o “mi piace” con grande senso della misura, un atteggiamento che travolge perché non ci appartiene; (silenzio) incute rispetto.
Abatantuono lo ha definito un De Niro in miniatura.
Perché siamo rimasti colpiti dalla sua prova, enorme; giovedì sera abbiamo presentato il film a Cagliari, 1.200 presenti, e l’emozione è stata enorme; sento questa terra come mia e con grande rispetto e pudore, perché ne ho sposato i valori; (abbassa la voce, rallenta) quando è comparso il nome di Ignazio è scoppiato un boato in sala: incarna un modo di vivere.
Nel film c’è un’offerta economica che cresce in maniera esponenziale. Ognuno si domanda a quale cifra avrebbe ceduto…
Il coraggio ha un limite marcato e nel nostro tempo è una qualità sempre più scarsa…
Lei a quale cifra?
Non lo so, sono un privilegiato, sono uno che guadagna bene. Certe situazione bisogna viverle; (pausa) sogno ancora un capitalismo etico.
Non il capitalismo che pensa di costruire resort cinque stelle a Gaza.
Lì il cinismo è imperante.
Nel film c’è Virginia Raffaele che recita in sardo.
È una spugna in grado di assorbire vizi, virtù, dialetti, suoni delle persone; è stata molto tempo con me in Sardegna, ha frequentato quella zona dove abbiamo girato e solo per acquisire la giusta inflessione; ama la gente, ci sta bene.
È l’eco dalla sua adolescenza da giostraia.
Il trauma della sua vita è quando hanno smontato il luna park dell’Eur (a Roma, ndr): è cresciuta lì, viveva lì…
Raffaele non teme la mescolanza.
Le radici hanno un peso ed è cresciuta pure in un quartiere popolare romano.
Il Milani bambino giocava a pallone per strada?
(Ride) Sempre, tornavo da scuola e scendevo. Riportarmi su era un problema.
Gli anni delle ginocchia sbucciate.
Di fronte a casa avevo un campo di calcio di polvere e sassi.
Qual era il suo ruolo?
A centro campo, regista.
Tutto torna.
Eh… (pausa) erano gli anni di Gianni Rivera e Gigi Riva. Gigi era il nostro idolo.
A Riva ha dedicato un documentario.
La mia prima volta in Sardegna è stata nel 1976, l’anno in cui Gigi ha smesso di giocare; ma noi amici del liceo avevamo tutti il mito di lui e siamo arrivati sull’isola.
Che ricordo ha di Riva?
A un certo punto è diventato un amico, siamo stati tanto insieme; l’ho conosciuto nel 2001 quando gli ho chiesto di poter girare un documentario su di lui. Il “sì” è arrivato nel 2021.
Ci ha pensato bene.
Nel frattempo ogni tanto lo chiamavo, ci parlavo, ma era diffidente, prudente, distaccato. Con un grande senso etico: mai una parola fuori posto, mai un entusiasmo eccessivo. E una spiccata umanità: schiena dritta, testa alta.
Un eroe assoluto.
Lo andavo a trovare e passavamo il tempo in poltrona, magari c’erano pure altri tre o quattro amici, i compagni di squadra; a volte chiacchieravamo, in altri casi restavamo zitti. Abbiamo passato dei pomeriggi in silenzio. E quanto rimpiango quelle ore, il suo addio è sempre un dolore enorme.
Non si è scottato nel conoscerlo.
No, anzi. La prima volta che l’ho incontrato non riuscivo a staccare lo sguardo dal suo piede sinistro; la sua amicizia ha rappresentato una delle emozioni più belle della mia vita.
Visti i suoi film, sembra uno che prende i mezzi pubblici. Che ascolta.
Ho l’abbonamento.
Metafora?
No, e da quindici anni: mi piace e non è vero che non funzionano.
Qui rischia l’eresia.
Allora ne azzardo un’altra: le tasse vanno pagate, certo dovrebbero farlo tutti, e io le pago anche per quelli che evadono.
Non ha la residenza a Montecarlo.
Proprio no; comunque sui mezzi pubblici incontro la gente vera, sono lì, guardo, li sento.
Lei può prendere i mezzi pubblici, sua moglie no.
(Ride) Beh, lei è più famosa di me; il problema non è quando ti riconoscono, ma quando non accade più; una volta Monicelli, sul set di Speriamo che sia femmina, a un’attrice che una mattina si è lamentata perché il telefono squillava sempre, ha risposto: “Bella, guarda che il problema è quando non squilla più”.
Proprio alla Monicelli.
Ironico e feroce come pochi altri; (ci ripensa) quello è stato il mio primo film.
Con un cast incredibile.
Ecco, arrivo sul primo set della mia vita e trovo Liv Ullmann, Catherine Deneuve, Philippe Noiret, Giuliana De Sio, Stefania Sandrelli (e il suo elenco continua)…
E lei?
Fingevo la normalità ma vivevo con una timidezza infinita; timidezza che mi accompagna da sempre; non sono uno dalla battuta pronta, non so tenere banco….
Risultato?
Nonostante questo, dopo venti minuti era tutto normale, dovevo lavorare e basta, quindi bloccare la strada, portavo il caffè a tutti; dovevo risultare utile, esattamente come ripeteva Monicelli: “Impara a esserlo, impara a lavorare, arriva prima di me e vai via dopo di me, poi andrà tutto bene”.
Ha sempre un tono molto pacato, ma sul set sbrocca mai alla Monicelli?
Urlo solo per farmi sentire quando qualcuno è lontano; e poi Mario non sbroccava, cercava solo il massimo della concentrazione e spiegava: “Questa storia che non faccio i complimenti a nessuno è sbagliata: perché devo dire ‘bravo’ quando uno fa solo il suo lavoro? Posso segnalare se sbaglia, non se compie il suo dovere”.
“Bravo” lo usa?
No, dico “grazie” e se sbaglio “scusa”. Scusa e grazie, nella vita, sono fondamentali.
Si sente 67 anni?
Purtroppo no.
Non li dimostra.
Sono nato vecchio.
Tradotto.
Oltre a non tenere banco, a non risultare estroverso, non ho mai fumato e quando avevo 16 anni, intorno a me, si accendevano qualsiasi cosa; non bevevo neanche alcolici.
Ancora astemio?
Ho iniziato a bere per stare insieme alle persone, quando ho cominciato ad andare per paesini e non potevo rifiutare.
Con sua moglie sarete molto cercati, ma apparite poco.
Non siamo mondani, ma lontani da cene, da incontri, conduciamo una vita riservata.
È complicato schermarsi?
No, siamo così; eppure il successo di Paola è clamoroso, mondiale, passa da Pechino a Londra; (ride) nel frattempo io giro la provincia italiana.
Non si butti giù, è anche il regista di Come un gatto in tangenziale.
Il film nasce dalla storia con una delle mie tre figlie: a un certo punto, quella di mezzo, mi fa capire che ha il primo fidanzato. “Bene, di dov’è?”. “Di Bastogi” (quartiere periferico di Roma, ndr). Alla parola “Bastogi” ho avuto la stessa reazione di Antonio Albanese nel film (totale disperazione, ndr). E ho iniziato a seguirla con la macchina, volevo capire, poi ho conosciuto i genitori del ragazzo e alla fine abbiamo girato il film a casa loro.
Non si sono offesi.
No, sono stati carini; io fautore della tolleranza, gli anni 70…
Tutto in discussione.
Da padre sono crollato. Ma un conto è teorizzare, un altro è vivere.
Sia in Come un gatto sia nell’ultimo film, alla base c’è sempre una questione morale…
Viviamo di ipocrisia nell’ideologia applicata.
C’è il lodo-Ricucci dell’essere bravi a fare i froci con il culo degli altri.
Purtroppo in molti casi è vero.
Torniamo al film: aggettivo per Diego Abatantuono.
Generoso come attore e persona; ha le qualità del grande interprete e ha sempre il bisogno di avere attorno tante persone.
Aldo Baglio.
Operaio. L’ho scelto per le mani; mani che hanno lavorato e sanno lavorare. È stato bravissimo.
Geppi Cucciari.
È una donna sarda dei tempi moderni: ha ereditato la cultura della sua terra e l’ha virata sull’ironia che non appartiene alle sue origini. Quindi ha fatto un lavoro enorme.
Lei chi è?
(Ride) Monicelli ripeteva: “Il regista è regista perché deve reggere. Basta con tutta ’sta cosa del direttore d’orchestra, quanta enfasi…”. Ecco, sono cresciuto pure con lui.