La Stampa, 19 ottobre 2025
Vanúsia Nogueira: "Clima e dazi sconvolgono l’industria del caffè Sale il prezzo ma non il reddito di chi lo coltiva"
«La geopolitica del caffè sta cambiando in fretta: prezzi, clima, nuove regole e mercati cambiano il volto a una filiera globale». Vanúsia Nogueira, brasiliana, è la direttrice esecutiva dell’International Coffee Organization (Ico), organizzazione intergovernativa nata 63 anni fa per coordinare il mercato del caffè. Da “regolatore” a “facilitatore”, oggi l’Ico mette allo stesso tavolo governi, imprese e società civile per cercare soluzioni comuni lungo la filiera. È a Torino per il 21° anniversario della Fondazione Lavazza, per un evento dedicato alla sostenibilità.
Perché il mercato è così nervoso?
«Da febbraio abbiamo visto picchi importanti, i più alti dagli anni Settanta. Il mercato soffre una grande volatilità. Pesano gli shock climatici nei principali Paesi produttori – Brasile, Vietnam, Colombia, Africa e Centroamerica – che riducono le scorte, mentre i consumi crescono, spinti dai nuovi mercati. Domanda e offerta non sono bilanciate. Tutti aspettiamo i prossimi raccolti: il clima è la variabile decisiva»
Quanto vale il mercato?
«Partiamo dalle persone: circa 25 milioni di aziende agricole nel mondo; attorno a loro circa 100-125 milioni di persone che vivono principalmente di caffè. Si produce in 80 Paesi; il caffè muove ogni anno un valore stimato in oltre 250 miliardi di dollari; si bevono oltre 3 miliardi di tazze al giorno. Solo l’export di chicchi di caffè nell’ultimo anno ha sfiorato i 50 miliardi di dollari, più del doppio di quindici anni fa. Un effetto dei prezzi, non di una crescita massiccia della produzione»
Dove crescono i consumi?
«In Asia non c’è solo la Cina: India, Indonesia, Vietnam, Filippine, Thailandia. Nel Medio Oriente, Arabia Saudita e area del Golfo stanno aggiungendo valore; Dubai è diventata una piazza di caffetterie molto dinamica. In Africa, oltre all’Etiopia, vediamo aumenti in Ghana, Costa d’Avorio, Kenya e Nigeria».
Parliamo di Italia e del caffè al bar: ha senso difendere la soglia psicologica dei 2 euro?
«In Brasile, fino a pochi decenni fa, al ristorante il caffè era gratis. Quindi capisco bene l’attaccamento culturale, ma il prezzo in tazza non è solo il costo del chicco verde: pesano affitti, salari, energia, inflazione. Il punto è trasparenza: far capire come si distribuisce il valore lungo la filiera e quanto arriva ai coltivatori. Non è accettabile che milioni di famiglie del caffè vivano ancora sotto la soglia di povertà. Dobbiamo educare i consumatori e redistribuire meglio il valore»
L’Organizzazione internazionale del caffè può mettere i giusti paletti?
«Nata nel 1963 a Londra in un mercato regolato, dagli anni Novanta l’Ico opera in libero mercato. Oggi siamo un ponte. Mettiamo insieme settore pubblico, imprese e società civile per trovare soluzioni economiche, sociali e – dal 1994 – anche ambientali. In un mercato deregolato nessuno può farcela da solo».
A proposito di ambiente, l’Ico sta insistendo perché i produttori adottino i principi dell’economia circolare del caffè. Di cosa si tratta?
«Nella tazza c’è solo il 5% del frutto, ovvero il chicco. Il resto della pianta ora può diventare valore. Con il Center for Coffee Circular Economy (C4CEC) – nata due anni fa e oggi con quasi 70 membri in 29 Paesi – condividiamo soluzioni: biochar per sostituire parte dei fertilizzanti minerali, polpa come ammendante, utilizzo degli scarti per materiali e arredi, processi zero-waste in stabilimenti pilota (anche in Italia, con la Demus di Trieste). Circolarità significa ambiente più sano e nuove fonti di reddito per i produttori».
Cambiamento climatico e perdita di biodiversità cambieranno il gusto del caffè?
«La ricerca sta accelerando. Per la varietà Arabica si studiano varietà più resilienti; in alcune aree passeremo a Robusta. Stiamo esplorando specie “dimenticate” – Liberica, Coffea Racemosa – con profili sensoriali diversi. In futuro avremo blend nuovi e, allo stesso tempo, soluzioni per preservare i profili che i consumatori amano. Innovazione e agronomia andranno di pari passo. Diversificare le coltivazioni significa ridurre il rischio di malattie delle piante o disastri climatici».
L’Ue ha presentato un regolamento contro la deforestazione (Eudr). Le aziende europee dovranno importare prodotti “deforestation free”, tra cui il caffè. Una soluzione divisiva. Per lei è un ostacolo o un’opportunità?
«Nessuno nel settore è “pro-deforestazione": è un punto fermo. Le piante del caffè hanno bisogno dell’ombra degli alberi per crescere sani. L’Eudr è una grande sfida tecnica e amministrativa, ma anche l’occasione per far lavorare insieme governi, imprese e produttori come non era mai accaduto. Serve dialogo: non tutti i Paesi sono pronti allo stesso modo, si discute di rinvii e aggiustamenti (probabilmente l’Eudr slitterà di altri 12 mesi, ovvero a fine 2026, ndr) e aggiustamenti. Siamo stati al G7, oggi siamo osservatori Onu, dialoghiamo con l’Ue. L’obiettivo è soluzioni applicabili ovunque, senza lasciare indietro i fragili. In Ecuador, per esempio, già esiste una collaborazione tra 400 famiglie di coltivatori, Stato e aziende per il primo caffè “deforestation-free”, certificato dall’Unep, il programma ambientale dell’Onu».
Gli Stati Uniti alternano minacce e applicano dazi. Trump è uscito dall’Ico. Quanto pesano le retromarce di Washington?
«Molto. Il mercato si adatta ai dazi, ma l’imprevedibilità blocca gli investimenti lungo la catena e spinge verso frodi e opacità. Per questo insistiamo su tracciabilità e cooperazione pubblico-privato: la tecnologia c’è, vanno creati standard condivisi e accessibili».
Tra i coltivatori di caffè nel mondo mancano i giovani, un po’ come in tutti i settori agricoli. Come si conquista la Generazione Alpha?
«Hanno valori e linguaggi diversi. Dobbiamo parlare di tecnologia, innovazione, impatto sociale, orgoglio di chi coltiva. I figli e le figlie dei produttori devono essere fieri di restare in azienda familiare: senza ricambio generazionale non c’è futuro. Il caffè del 2035 sarà anche un racconto credibile di sostenibilità, identità e tecnologia».