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 2025  ottobre 19 Domenica calendario

Così la geografia delle proteste di piazza traccia la mappa della nuova secessione

Per anni pare avesse votato democratico e per Obama, poi per poi convertirsi ai messaggio della destra estrema e xenofoba dopo aver perso alcuni sussidi governativi. Negli anni si era riempito di odio, aveva ingoiato Xanax e alcol e si era trasformato in un manifesto anti: anti migranti, anti ebrei, anti neri. Ma accanto a me, nel pomeriggio di Washington sembrava un tipo più articolato e pensante. Certamente aveva passato molto tempo a riflettere sul suo paese e aveva una sua soluzione ai problemi che lo attraversavano. «È venuto di nuovo il tempo di dividerci. Ognuno per la sua strada. Gli Stati dei liberal malati di cultura woke da una parte e noi dall’altra. Non serve più stare insieme. Ognuno per la sua strada e la violenza finisce». Insomma una sorta di nuova secessione. Li per lì mi era sembrata pura follia di un appassionato di Robert Lee.
Non ci avevo più ripensato. Fino a ieri pomeriggio. Quando i network americani hanno cominciato a trasmettere la mappa colorata delle 2600 città dove si stavano tendendo le manifestazioni “No King”, le proteste contro “Re Trump” in giro per gli Stati Uniti. Nelle lunghe dirette televisive, i commentatori spiegano che il timore della violenza sta diventando concreto, gli organizzatori hanno fatto training di de-scalation ossia controllo dei disordini, abbassamento dei toni e della violenza, ma non basta. Io continuo a fissare lo schermo su cui si compongono i puntini colorati distribuiti sulle sagome degli Stati Uniti d’America: si infittiscono sulle coste e si fanno sempre più radi nel centro della cartina, nei grandi stati del Midwest, il centro. Li guardo e realizzo che quei puntini, ancora una volta, disegnano due Americhe. Le stesse che si dividono quando votano. Le stesse che si combattono nel momento in cui bisogna definire la scala delle priorità. E a dividerle, molto spesso, non è l’ideologia ma la propria storia personale, e la percezione dei torti e dei bisogni. E così, mi riviene in mente l’orribile coppola arancio scozzese di Jason Kessler, mentre camminavamo, spalle alla Casa Bianca, quel pomeriggio di un anno fa.
Lui l’aveva sparata grossa, prefigurando la secessione tra Stati ma oggi è un fatto che una profonda divisione dentro l’America sta diventando qualcosa di molto concreto. La violenza sta aumentando, le parole di odio anche. E la presenza di un Presidente che sfida tutti e mette a dura prova la costruzione democratica, rischia di diventare un catalizzatore estremamente pericoloso. Le manifestazioni di questi giorni raccontano di una protesta che mette insieme mondi solo apparentemente molto distanti fra loro ma ne esclude completamente alcuni altri. Si uniscono per strada a protestare contro Trump e le sue tentazioni autocratiche le donne laureate, i liberal, i democratici colti e aperti alla società multietnica, insieme con le minoranze ghettizzate. Non ci sono quasi le working class bianche, quelle che più degli altri sentono di aver perso il proprio ruolo sociale per colpa della migrazione e della tutela delle persone di colore, privilegiate da leggi e protezioni che hanno modificato l’equilibrio sociale negli Usa.
I politologi americani spiegano la tensione latente come l’effetto di una politica che ha lasciato che i partiti si dividessero lungo faglie determinate da etnia, religione e appartenenza razziale piuttosto che su basi progettuali ed ideologiche. La larghissima maggioranza degli afroamericani, e una buona maggioranza di latinos, asiatici, musulmani ed ebrei vota democratico, insieme ai professori, agli studenti dei college, ai giovani figli della globalizzazione mentre il partito repubblicano è costituito all’80 per cento da elettori bianchi.
Negli anni la questione identitaria e razziale sta tornando prepotentemente in superficie e, se all’identità si sovrappone il disagio, o il senso di essere stati privati di qualcosa, la miscela diventa esplosiva.
Quelle stesse persone che erano abituate a considerarsi dominanti nel proprio paese, oggi si sentono minacciate e attaccate. Sia vero o no. Rimane un dato di fatto che le classi operaie di interi stati del Midwest sono state lasciate allo sbando, che le miniere hanno chiuso, che molta parte dell’industria manifatturiera è fallita e intere contee sono diventate regioni di bianchi poveri che vivono in stamberghe contando su qualche brandello di sussidio governativo. Una intera fetta di società che ha visto il proprio potere declinare, che ha fatto i conti con una politica più concentrata sui discorsi woke che sui bisogni quotidiani di chi non riusciva più a sopravvivere, si è riconvertita alle parole di divisione identitaria e di odio.
Certo, in giro per gli Stati Uniti i gruppi di miliziani più o meno armati ci sono sempre stati, i neonazisti anche. Ma prima erano tribù che si muovevano sottotraccia, non osavano venire in superficie. Oggi si sentono interpreti della rabbia che attraversa il Paese, galvanizzati dal risultato elettorale e dalle parole del Presidente. “Make America Great Again” è il nuovo vangelo.
E mentre spariscono i partiti come li conoscevamo, la radicalizzazione violenta cresce. Anche perché adesso i messaggi corrono nei social network e non è un caso che gli estremisti più feroci siano diventati straordinari utilizzatori delle piattaforme social, dei luoghi dove l’aggressione a chi non la pensa come te ti trasforma in un personaggio di successo. Elon Musk ha tolto da X tutte le restrizioni sulle parole di odio e qualche giorno fa si è messaggiato proprio con Gavin McInnes (uno dei fondatori del gruppo razzista dei Proud Boys, che ho incontrato in un altro viaggio al centro della terra) riammettendolo nella piattaforma da cui era stato escluso dopo l’assalto a Capitol Hill del 2021. Il primo giorno di presidenza Trump ha rimesso in libertà milleseicento persone che avevano procedimenti aperti per aver partecipato all’assalto del 6 gennaio. Il loro messaggio sta attraversando l’America e adesso che sono di nuovo tutti liberi, il rischio si moltiplica: sono ovunque, pronti a dimostrare che l’America deve dividersi.
Così, in queste ore in cui le strade si riempiono di quell’altra America, quella che manifesta contro Trump e dice che la democrazia americana è a rischio, la spaccatura è evidente. Anche l’America anti Trump è attraversata da correnti violente. Anche lì dentro si convogliano malesseri e rivendicazioni feroci di ghetti ed estremismi. E quella mappa che nella mente di Keller era pronta ad andare in pezzi non è più così lontana dal reale, specie se deve fare i conti con una presidenza che al linguaggio della politica, tende a preferire quello della forza.
Chi conosce i sobborghi di Chicago e Los Angeles è rabbrividito quando ha sentito Trump confermare di aver detto al ministro della guerra Pete Heghseth: «Useremo qualcuna delle nostre città pericolose come campo di addestramento per i nostri soldati». Difficile dargli torto.