la Repubblica, 19 ottobre 2025
Intervista a Ninetto Davoli
I ricci sono tutti ancora lì, l’aria da ragazzino impertinente è la stessa, all’anagrafe gli anni sono 77 ma sembra averne una ventina di meno. Ninetto Davoli lo sa che in questi giorni lo chiameranno tutti: «È passato mezzo secolo da quella notte sbagliata. Io nella mia vita ho avuto solo un amico, Pier Paolo, quel 2 novembre del ’75 me lo hanno rubato. Poi c’è stato anche Ray, l’attore, Ray Lovelock, se lo ricorda? E pure lui se n’è andato qualche anno fa. Sto bene, per carità, ho una famiglia splendida, ma loro due mi mancano tanto. E comunque, immagino che l’argomento sia Pasolini? Che devo dire, io Pier Paolo ce l’ho dentro. Non lo devo ricordare, sta sempre con me. Sono stato fortunato nella vita, mi ha fatto conoscere me stesso. Mi ha salvato».
In che senso salvato?
«Venivo da una famiglia disagiata, avevamo lasciato la Calabria per cercare fortuna nella capitale. Fame, buio, una baracca per casa, era facile perdersi. Ma ho avuto la fortuna di incontrarlo ed è stato come entrare in un altro mondo».
Cosa la colpì di lui?
«Era uno semplice, gli piacevano le cose vere, le persone. E io ero così. Nella mia famiglia era normale dividere quel poco che si aveva: oggi mangio io e mangi pure tu. Anche Pier Paolo era così. Dava, aiutava. Era un uomo buono, ma con una forza pazzesca».
Il primo incontro con lui fu casuale…
«Avevo 15 anni. Mio fratello lavorava come falegname nel cinema. Un giorno mi portò sul set de La ricotta. Pier Paolo mi vide, mi fece una carezza sulla testa. Rimasi di sasso, non ero abituato a quei gesti. Mi sembrò subito una persona di cui ti potevi fidare».
E da lì iniziò tutto?
«Sì. Mi fece fare una piccola parte nel Vangelo secondo Matteo. Poi Uccellacci e uccellini, con Totò. Ma ti rendi conto? Io con Totò...».
Ci fu una famosa cena a casa del “principe”.
«Feci una gaffe bestiale. Ci aprì lui in persona, era in vestaglia rossa con i pon pon. Scoppiai a ridere come un matto, Pasolini era imbarazzatissimo. Poi la signora Faldini ci fece accomodare a tavola. Mi sembrava di sognare: argenteria, candele, tre forchette, tre piatti. Mi giro verso Pier Paolo e faccio: “A Pà, ma quanti semo a magnà?”.
Ha lavorato anche con la Callas, si parlò a lungo di un amore tra la cantante e Pasolini.
«Tutte fesserie. Pier Paolo voleva bene a Maria perché lei, malgrado fosse una stella di prima grandezza, era una persona semplice. La Callas era davvero innamorata ma per lui era un amore platonico. Forse lei aveva frainteso…».
Viaggiavate spesso tutti insieme. Pasolini, lei, Moravia, Dacia Maraini…
«Una volta andammo in Africa, ma la Callas non c’era. Ci avvicinammo a un villaggio dove c’erano uomini tutti nudi che danzavano davanti al fuoco. Il capo tribù ci vide da lontano e dissi al mio amico Sergio Citti che ci avrebbero mangiati. Lui mi guardò e sorrise: “Guarda che i cannibali mangiano gli altri uomini per assimilarne l’intelligenza. Tranquillo, prima si mangeranno Pasolini, Moravia e Dacia, quando arriveranno a noi saranno già sazi”. Ci mettemmo a ridere come pazzi, alla fine ne uscimmo sani e salvi».
Con Pasolini ha recitato in una decina di film, per tanti anni siete stati inseparabili. Poi arrivò Patrizia, sua moglie. Pasolini non la prese bene.
«Sì, Pier Paolo le scrisse una lettera dai toni pesanti. Non violenti, era soltanto dolore. Lui mi amava, visse il mio fidanzamento come una pugnalata. Disse che sarebbe stato immorale mantenerci, che senza di lui io non ce l’avrei fatta a continuare a lavorare nel cinema, che mi sarei perso nuovamente. Ma era Pier Paolo, anche in quelle parole, non gli ho mai portato rancore».
Patrizia come la prese?
«Ne fu molto dispiaciuta, ma che altro avrebbe potuto fare? Però anche per lei il legame con Pasolini è sempre stato fortissimo. Fino a quella sera…».
Eravate a cena tutti insieme. Lei, sua moglie, i suoi due bambini che ha chiamato Pier Paolo e Guido, come il fratello del poeta morto nell’eccidio di Porzûs.
«Alla fine Patrizia ebbe quasi una premonizione. Mi fa: “Ninè, accompagnalo tu Pier Paolo a casa”. Io le risposi: “Ma figurati, avrà le sue cose da fare”. Mi chiamarono qualche ora dopo per riconoscere il cadavere».
Una notte sbagliata. Lei continua a pensare che la politica non c’entra nulla?
«Pier Paolo mi diceva tutto, se fosse stato in pericolo lo avrei saputo. Purtroppo di notte frequentava quei brutti giri dei ragazzi di vita. Lo avevo messo in guardia tante volte, ma vuoi che uno come lui stesse a sentire me? Ha sempre fatto di testa sua, e pure quella notte. Una notte sbagliata, sì».
Sono passati cinquant’anni, chissà quante cose avrebbe fatto Pasolini se ne avesse avuto il tempo.
«Era un vulcano, ricordo che una volta correva a cento all’ora in autostrada e frenò di colpo. Mi spaventai a morte, lui accostò l’auto, prese un pezzo di carta e una matita e si mise a scrivere. “Scusami, se non lo faccio mi scappa l’idea”. Per poco non lo prendevo a botte. E poi c’era Petrolio, il suo romanzo incompiuto. Lo avrebbe continuato a scrivere per tutta la vita, avrebbe aggiunto capitoli su capitoli, non si sarebbe mai fermato. E vabbè, poi avrebbe giocato a calcio, che per lui era una cosa tremendamente seria».
Anche per lei...
«Io ero terzino, lui mezzala. Quando non gli passavo la palla si incazzava come una bestia. Ma mai quanto quella volta con Bernardo Bertolucci».
Cioè?
«Eravamo a Parma, Bertolucci girava Novecento, Pier Paolo Salò e le centoventi giornate di Sodoma. Partì la sfida tra troupe e cast. Pasolini quella partita la voleva vincere a tutti i costi, solo che quel diavolo di Bernardo si presentò con due ragazzini della Primavera del Parma spacciandoli per attrezzisti. Uno si chiamava Carlo Ancelotti e non ci fece vedere palla. Vinsero loro, ma Pier Paolo non la prese affatto bene. Aveva capito il trucco, solo che ormai era troppo tardi».
Una volta ha detto che ogni tanto le capita ancora di sognarlo.
«Sì, anche qualche giorno fa. Nei sogni non è morto. Stiamo lì, lavoriamo, parliamo, discutiamo… a un certo punto gli dico: “’A Pà, ma non eri morto?” E lui: “Ma che stai a dì…”. E ridiamo».
Se fosse vissuto, invece, che avrebbe fatto in questi 50 anni?
«Secondo me avrebbe lasciato l’Italia, un Paese nel quale non si è mai riconosciuto del tutto. Volevamo andare a vivere in Marocco. Lì, in Africa, c’è ancora umanità, verità. Era questo il suo sogno. Forse sarebbe ancora là».