Corriere della Sera, 19 ottobre 2025
Quei dubbi sul futuro
Le leggi di bilancio del ministro Giorgetti sono un insieme di luci e di ombre. Delle luci, il miglioramento dei conti pubblici, abbiamo tratto vantaggio nei primi tre anni del governo. Delle ombre rischiamo di pagare lo scotto fra qui e la fine della legislatura.
La sequenza di queste leggi di bilancio è curiosa: i governi che pensano di durare un’intera legislatura di solito cominciano varando provvedimenti utili, ma spesso impopolari, cercando di riguadagnare la popolarità prima delle elezioni. Qui è accaduto il contrario: vediamo perché.
Nei primi tre anni del governo la pressione fiscale è salita un po’ più di un punto, dal 41,4 nel 2023 al 42,6 nel 2024. Questo è avvenuto senza che il Parlamento votasse alcun aumento di tasse. Semplicemente per effetto del picco di inflazione verificatosi nel 2023 a causa dell’aumento del prezzo del gas. L’aumento dei prezzi, e in misura minore dei salari, ha spinto molti contribuenti verso fasce di reddito con aliquote di tassazione più alte. Ad esempio, se un cittadino nel 2022 guadagnava 40 mila euro lordi l’anno, e quello successivo avesse guadagnato 4 mila euro in più (un aumento del 10%), il suo potere d’acquisto sarebbe rimasto invariato perché non solo gli stipendi, ma anche tutti i prezzi erano saliti del 10%.
Con una differenza però: superando i 40 mila euro di reddito imponibile sarebbe passato ad un’aliquota più alta e avrebbe pagato più imposte. E anche se l’inflazione è salita solo per un anno, il 2023, la pressione fiscale non è ridiscesa, perché il livello dei prezzi smette di salire quando l’inflazione si ferma, ma non scende.
Da un paio d’anni questo «giochino» fa sì che i cittadini, a parità di beni e servizi acquistati, paghino, e lo Stato incassi, 25 miliardi di euro in più all’anno, dei quali solo 17 sono stati restituiti con la riforma fiscale. Questo spiega gran parte del miglioramento tanto vantato dei conti pubblici.
Un’altra misura che dovrebbe migliorare i conti pubblici è una tassa sui profitti delle banche. Il governo ci aveva già provato due anni fa, ma le banche riuscirono a convincere il Parlamento a trasformare quella tassa in un aumento di capitale per le banche stesse. Risultato: banche più solide (ma nel 2023 già lo erano) e nessun gettito fiscale. Dubito che questa volta la tassa funzioni. Se si pensa che le banche fanno troppi profitti la via maestra è aumentare la concorrenza fra gli istituti di credito. Con più concorrenza non solo si riducono i profitti delle banche, si riduce anche il costo dei prestiti alle imprese e così si aiuta la crescita. Si potrebbero anche ridurre le garanzie pubbliche sui prestiti alle imprese che trasferiscono allo Stato il rischio di prestiti non rimborsati. Le garanzie pubbliche erano state introdotte durante il Covid, quando raggiunsero la cifra di 294 miliardi, di cui 110 per proteggere le imprese durante la pandemia. Oggi la pandemia è finita, ma quei 110 miliardi di garanzie sono ancora lì: un altro motivo per cui i profitti delle banche sono tanto elevati.
Il governo sta cercando di migliorare i conti pubblici anche attraverso una riforma del Pnrr. Da qualche anno gli investimenti del Pnrr mantengono il nostro tasso di crescita un punto e mezzo circa più elevato. Il piano finisce il prossimo anno e da quel momento, in assenza di altri fattori che lo sostituiscano, la crescita rallenterà. Fin qui nulla di nuovo. Ora il governo sostiene che fa sempre più fatica a spendere i fondi rimasti nel Pnrr perché i finanziamenti europei arrivano solo se si fanno le riforme concordate con Bruxelles, ad esempio si riducono le rendite dei produttori di energia elettrica. Ha quindi chiesto alla Commissione europea di trasferire quei fondi ai normali capitoli del bilancio dello Stato, che non comportano impegni a fare riforme. Il risultato è che alcuni capitoli del bilancio si alleggeriscono e i conti pubblici migliorano. Ma i progetti del Pnrr erano stati scelti fra quelli che si pensava potessero dare una spinta alla crescita: usarli per finanziare una sospensione dell’aumento dell’età pensionabile non avrà il medesimo effetto.
In conclusione: dal 2026 avremo una pressione fiscale più elevata, e quindi, già per questo, meno crescita. E meno crescita anche per il modo in cui il governo ha chiesto di riscrivere la coda del Pnrr, ammesso che Bruxelles lo accetti. Senza altre fonti di crescita dall’anno prossimo l’economia potrebbe entrare in recessione.