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 2025  ottobre 19 Domenica calendario

Intervista a Lucia Poli

Non voleva fare l’attrice, avendo un fratello già famoso...
«No – risponde Lucia Poli, sorella di Paolo Poli – mi sentivo condizionata da lui, non volevo fare la sorellina scema portata per mano alla ribalta dal fratello famoso. Mi sono laureata in filosofia all’università di Firenze e ho cominciato a insegnare, i primi tempi come supplente, poi con l’incarico definitivo di professoressa al liceo. Un lavoro che mi piaceva molto».
Cosa la convinse a salire in palcoscenico?
«Sin da bambina, quando giocavo con gli altri, mi piaceva inventare storie: la nostra non era una famiglia benestante e non possedevamo giocattoli. Inoltre, salire in cattedra per insegnare è un po’ come recitare sul palco, molto simile al teatro: una lezione non consiste solo in ciò che si racconta, ma come lo si racconta ti fa amare oppure odiare dagli studenti. Però l’insegnamento di una materia ha anche la sua ripetitività. Il teatro è più creativo, cambia in continuazione».
Il suo primo approccio col teatro?
«In una maniera molto buffa. Avevo 12 anni e Paolo, che aveva 11 anni più di me e frequentava l’università, una volta iniziò a raccontarmi un Amleto che aveva appena visto, non so dove né con chi. Eravamo a casa, non ricordo perché ero seduta in bagno e lui, con voce polifonica, cominciò a interpretare tutti i personaggi shakespeariani in maniera tragicomica, cambiando i toni: a volte horror descrivendo i duelli, a volte melanconici per la morte di Ofelia. Mentre recitava mi tagliava i capelli: avevo una bella coda di cavallo e, al termine della sua narrazione, mi ritrovai con i capelli rasati a zero, sembravo un ragazzo».
Si piaceva?
«Macché! Scoppiai a piangere e per un po’ non ho voluto uscire di casa, né andare a scuola. Quando poi sono tornata in classe, la professoressa di matematica mi chiese se avevo avuto la rogna».

Perché suo fratello le aveva fatto questo brutto scherzo?
«Non era uno scherzo! A Paolo piacevano i maschietti e quindi non amava i capelli lunghi. Secondo lui era un modo per rinnovarmi ed essere più adatta al mio fisico: essendo alta e magra, una specie di stecchino, non andava bene il capello lungo. Oltre alla testa rasata, mi comprò un colletto bianco rigido e un vestitino di stoffa scozzese... Ne era entusiasta e mi disse: non sei mai stata così carina, ti devi vestire da maschietto».

E lei non si ribellava?
«Difficile ribellarsi a lui: era molto coinvolgente, divertente e affettuoso. È stato anche tanto protettivo con me: ricordo quando avevo 4 anni, ho assistito a una scena terribile e fu lui a portarmi via subito».
Cosa era successo?
«Sono nata in via delle Panche a Firenze ma, durante l’occupazione dei tedeschi, andammo sfollati in campagna, nella zona della Linea Gotica, dove c’erano continue lotte tra tedeschi e partigiani. Proprio lì vidi un partigiano impiccato e non solo... Eravamo stati minacciati da due nazisti armati di fucile, ma la notte stessa li trovammo uccisi, in un mare di sangue, davanti alla porta del casolare dove ci trovavamo: la morte accomuna tutti, buoni e cattivi».
E i suoi genitori?
«Purtroppo papà è mancato molto presto, ma per fortuna avevamo una mamma molto attiva: vedova con cinque figli... una famigliona, come quelle che si creavano a quei tempi. Io ero la più piccola».
E sua madre come faceva a portare avanti da sola una famigliona?
«Ha sempre lavorato, era maestra elementare a Sesto Fiorentino, dove fu la prima a introdurre a scuola il metodo Montessori, una vera avanguardista. Inoltre, per arrotondare lo stipendio, il pomeriggio faceva pure le ripetizioni private: una stacanovista. E noi figli, avendo un’insegnante dentro casa, studiavamo ascoltando le lezioni che faceva lei agli allievi privati».
Non frequentavate la scuola?
«Non ne avevamo bisogno! Ce l’avevamo a domicilio! Quando qualcuno chiedeva a mamma perché non ci mandava a scuola, rispondeva: la natura educa e, quando i bambini vorranno andare, li manderò. Infatti proprio io una volta le dissi: le mie amiche vanno a scuola, ci voglio andare anch’io e così avvenne, andai direttamente in terza elementare».
Una genitrice davvero singolare...
«Molto religiosa, osservante e molto generosa. Noi eravamo poveri, ma lei non sentiva la necessità di possedere nulla, quel poco che avevamo in casa lo condividevamo. Nelle feste natalizie o pasquali invitava a mangiare da noi i bimbi dell’orfanotrofio, che si trovava vicino alla nostra modesta abitazione: ci stringevamo a tavola, stavamo tutti insieme felici e soddisfatti del non lauto pasto».
Come e quando è avvenuto il salto definitivo nel ruolo di attrice teatrale?
«Non avevo alcuna intenzione di fare il salto vicino a Paolo, avevo paura: era talmente più forte di me che il palcoscenico se lo mangiava. Quindi ho iniziato con un’esperienza da solista a Roma, nelle cantine off dei primi anni ‘70. Il mio esordio è stato da protagonista di un mio monologo, Liquidi, sulla condizione della donna: da un lato faceva ridere, dall’altro scandalizzava il pubblico, perché dalla mia bocca fuoriuscivano liquidi, sbavavo, e la gente inorridiva».
Una provocazione?
«Una forte provocazione in un teatrino d’avanguardia, l’Alberichino, ricavato da un vecchio garage, dove debuttò in quel periodo pure Roberto Benigni, che in verità voleva fare il cantante, suonava la chitarra, componeva canzoni buffe, volgari, appartenenti alla tradizione popolare toscana, contadina. Desiderava a tutti i costi ottenere un’audizione da Adriano Celentano, ma non credo che ci riuscì».
Poi, però, lei ha deciso di accettare il confronto scenico con suo fratello.
«La gioia di lavorare insieme era talmente affascinante per me, che ho superato tutti i timori del confronto. Amavamo gli stessi autori, per esempio Palazzeschi. Ci somigliavamo anche fisicamente, un’identità quasi imbarazzante che ci ha unito profondamente. Il nostro spettacolo più divertente, Cane e gatto, dove essendo io parecchio androgina, ci scambiavamo i ruoli tra maschio e femmina, giocavamo a fare io l’uomo, lui la donna. Infatti, non a caso, Federico Fellini, che aveva visto foto dello spettacolo, mi voleva far interpretare un travestito in Ginger e Fred. Andai da lui a Cinecittà, ma non accettai la proposta, proprio perché in quel periodo ero impegnata in teatro».
Se n’è pentita?
«Assolutamente no, ma ero contenta di averlo conosciuto di persona. Quello era un periodo ricco di incontri».
Per esempio?
«Alberto Moravia, un vero amico senza atteggiamenti da grande scrittore. Pasolini, uomo timido, riservato, ma quando parlava di letteratura lo ascoltavo a bocca aperta. Anna Magnani l’ho conosciuta quando veniva spesso a vedere gli spettacoli di Paolo e una volta mi disse una frase che mi è rimasta impressa: facciamo gli attori non per gli applausi, per il successo, ma per ricevere qualche bacio o carezza che da bambini ci sono mancati».
Nella vostra famiglia, com’è stata vissuta l’omosessualità di suo fratello, da lui coraggiosamente dichiarata?
«Le nostre sorelle maggiori lo hanno criticato, lui si è sentito tradito, tanto che le chiamava le “sorellastre”. Mamma era talmente aperta e geniale che accettava tutto, diceva: i miei figli sono intelligenti, faranno il meglio per sé stessi. Io l’ho ammirato: non era solo un grande artista, ma un uomo libero e di grande dirittura morale. Quando è mancato, il suo epitaffio poteva essere “scusate se faccio polvere”. Era dotato di un’ironia incontenibile, caustica come quella di Oscar Wilde».
E proprio con Wilde lei torna in palcoscenico, il 21 ottobre alla Sala Umberto, a Roma, nel ruolo di Lady Bracknell ne «L’importanza di chiamarsi Ernesto», con la regia di Geppy Gleijeses.
«Wilde era un dandy, amava ciò che disprezzava e il mio personaggio riflette tale intima, divertente contraddizione».