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 2025  ottobre 19 Domenica calendario

Intervista a Bernard-Henri Lévy

In un ristorante poco lontano dagli Champs Élysées il grande intellettuale francese Bernard-Henri Lévy parla del libro Insonnia (La nave di Teseo) che esce ora in Italia, e di sé. A 76 anni, sempre in prima linea, BHL ha molto da raccontare.
L’insonnia come pretesto per scoprirsi?
«Ho la reputazione di essere uno che non parla di sé, e invece mi sono messo a raccontare la mia vita. Insonnia in Francia è stato preso come una specie di abbozzo delle mie memorie, che forse non pubblicherò mai».
Per adesso ci sono queste 160 pagine che rivelano un BHL inatteso, sentimentale, pieno di humour e meno spavaldo di quel che ci si immagina, che la notte si fa prendere dalla paura.
«Ma certo che ho paura, come tutti. Ho paura della morte, dei miei demoni, delle mie passioni, delle zappe che mi do continuamente sui piedi. Ho fatto molti errori nella vita. Non politici, sarò presuntuoso ma non mi pento di nessuna mia posizione pubblica. Errori su di me, sulla mia vita. Tanto credo di essere lucido quando offro un consiglio a un amico, o a un capo di Stato, quanto sono pessimo quando si tratta di me. Perché in quel caso la passione vince sulla ragione».
«Tutto prende proporzioni enormi», scrive. Tutto le toglie il sonno, l’Ucraina aggredita ma anche un’amicizia, uno sguardo, un libro.
«È vero che prendo la vita sul serio. E mi rendo più conto dell’importanza estrema di tutto nella chiarezza della notte. Quando fa buio ma la luce è accecante».
I reportage più accorati sono sulle guerre dimenticate: Sri Lanka, Burundi…
«All’inizio degli anni Duemila Jean-Marie Colombani e Edwy Plenel, alla guida di Le Monde, mi chiesero di scrivere per loro, e io risposi “a tre condizioni: su guerre che durano da almeno 20 anni, che abbiano fatto migliaia di morti, e che voi non ne abbiate mai parlato”. Plenel mi rispose “impossibile che Le Monde non se ne sia mai occupato”, ma il giorno dopo gli feci la lista. Passai un anno a coprire quelle guerre, i reportage in Italia vennero pubblicati dal Corriere, su Sette».
Dalle zone di guerra lei realizza anche documentari, per esempio in Ucraina, ed entra nell’inquadratura. C’è chi la accusa di protagonismo, che cosa risponde?
«Che è una questione di onestà. Una delle cose che mi disturbano di più, nei documentari e talvolta nel giornalismo, è la pretesa di obiettività. Io non ci credo, all’obiettività. Sono io a parlare, questa è la mia visione delle cose. Sono qui, me ne prendo la responsabilità davanti all’obiettivo. Altrimenti è una truffa. Il narcisismo non c’entra: se sono a Bakhmut o a Pokrovsk, e la videocamera mi riprende quando la bomba cade a qualche decina di metri, l’immagine è quel che è, non c’è esibizione. Ho paura, ma ho anche sempre la sensazione che il peggio non arriverà, neanche stavolta».
A che cosa attribuisce questa certezza?
«Come tutti coloro che sono stati bambini amati dai genitori, e uomini amati dalla loro donna, ho un piccolo carapace di invulnerabilità. Sottile, ma c’è».
A proposito dei genitori, suo padre toglie il saluto al fratello, suo zio Armand, perché durante un pranzo di famiglia Armand osa dire che «i veri uomini fanno la doccia, non il bagno». Che uomo era suo padre?
«Un personaggio magnifico, e anche eroico, in gioventù: si è arruolato nelle brigate internazionali in Spagna, poi ha rifiutato Pétain e andò volontario nell’armata d’Africa con i francesi liberi di De Gaulle, decorato per la battaglia di Monte Cassino».
Certo, severo con suo zio.
«Sì, mio padre era anche un uomo irascibile, suscettibile. Mi ha molto amato, e io l’ho ricambiato. Con entrambi i miei genitori, del resto, è stato un amore assolutamente reciproco, una rarità».

Cita con grande affetto anche sua nonna, analfabeta.
«Questi sono i miracoli della cultura e della scuola repubblicana. In due passaggi si va dall’estrema umiltà dei miei nonni incapaci di leggere e scrivere a me intellettuale. Ma il vero salto è quello tra i miei nonni e i miei genitori. Mio padre è stato un grande industriale, mia madre era un miracolo di intelligenza, cultura, cinefilia, amore della letteratura, eleganza. Ma mio nonno era un pastore, che portava il gregge dall’Algeria al Marocco spagnolo e ritorno, e mia nonna ha imparato solo alla fine della sua vita a scrivere qualche parola. Mi spediva dei fiori secchi, dei quadrifogli, sulla busta scriveva solo “Bernard” e “Paris”, e mia zia aggiungeva il resto».
Veniamo all’Italia. Nel 1977 è a Bologna, alla manifestazione della sinistra extra-parlamentare, alla quale lei, uomo a sua volta di sinistra, rivolge uno sguardo per lo meno perplesso. Come ai seguaci di Jean-Luc Mélenchon adesso?
«Trovo che il melenchonismo sia ancora peggio. L’estrema sinistra di oggi, il cui programma si riassume nel brandire la bandiera palestinese e talvolta persino quella di Hamas, è ancora più superficiale dell’estrema sinistra dell’epoca, che era pericolosa, certo. Tutti i tratti che la mia generazione ha denunciato nell’estrema destra li ritrovo adesso nell’estrema sinistra francese, italiana, spagnola, per esempio l’antisemitismo venuto allo scoperto, che è una cosa terribile».
Sul Medio Oriente lei critica il suo quasi vicino di casa Emmanuel Macron, fratello di insonnia. Lo definisce «perfetto» sull’Ucraina, e «sconfortante su Israele».
«Perché anche lui prigioniero di preconcetti. Riconoscere adesso lo Stato di Palestina non aveva alcun senso. Quel che era giusto è quel che ha appena fatto Donald Trump. È bizzarro, ma è così: fermare i bombardamenti a Gaza e fare rientrare gli ostaggi in Israele. Non annunciare uno Stato di Palestina che oggi sarebbe uno Stato di Hamas. Il giorno che Hamas sarà battuto e l’Autorità palestinese riformata, allora ci vorrà uno Stato palestinese, è logico. Non adesso».
In Italia le sono state rimproverate due prese di posizione, quella sul caso Battisti e quella sulla Libia.
«Non ho difeso Battisti ma la necessità che fosse portato davanti ai giudici, criticavo la condanna in contumacia».
E sulla Libia, oggi chiederebbe ancora l’intervento contro Gheddafi?
«Certo, rifarei la stessa cosa. Nel febbraio 2011 c’era un massacro in corso, la repressione sui ribelli di Bengasi. L’Occidente era davanti a un bivio: dire “guardate che la democrazia va bene per noi ma non fa per voi”, o almeno provare a fermare il massacro. Barack Obama poi se ne è pentito, ma ha sbagliato».
Seguendo i suoi consigli l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy fu in prima linea in Libia. Che cosa prova adesso a vederlo sulla soglia del carcere?
«Lo trovo ingiusto. Il tribunale ha assolto Sarkozy dalla corruzione, ma lo ha condannato per un vago delitto di associazione a delinquere. La democrazia è una doppia sovranità, del popolo e del diritto. Quando il diritto si sbaglia, si può cambiare la legge».
In «Insonnia» lei evoca i suoi ideali ma anche, en passant, le sue idiosincrasie: non usa ombrelli, pantofole, orologi, scarpe con i lacci perché non ha mai imparato ad allacciarsele...
«Tutto ciò che mi rende schiavo mi fa impazzire, e gli oggetti mi rendono schiavo. Non mi piace quel che facilita troppo la vita, non ho mai sopportato che un orologio mi ricordasse gli appuntamenti, anche prima di avere uno smartphone».

Come faceva a rispettare un impegno?
«Ho sempre avuto una specie di orologio interno che mi faceva capire più o meno che ore erano. Una sorta di igiene mentale, e un culto assoluto della libertà».

Accanto a lei c’è sempre l’amata A., Arielle Dombasle, che quando vi siete incontrati finse di avere una sorella gemella.
«Era il suo modo per verificare che tipo fossi, se le sarei stato fedele o no. Interpretava i due ruoli, sé stessa e la sorella gemella che cercava di indurmi in tentazione. Ma ho superato il test, non ho ceduto alla finta gemella, e A. l’ha vista come una specie di prova definitiva che amavo solo lei».


Perché vi date del voi?
«Darsi abitualmente del voi serve a potersi dare talvolta del tu».

È preoccupato per lo stato della Francia oggi?
«Sì. Perché la politica sta scomparendo. È un’arte nobile, che presuppone il confronto tra visioni del mondo. Oggi si litiga solo per le poltrone, non c’è alcuna ambizione o prospettiva politica. Ma tutto l’Occidente è colpito da questa stanchezza democratica».
Macron fa bene a non dimettersi?
«Certamente. La democrazia non è la legge dei sondaggi. Una repubblica ha dei ritmi, e il presidente è eletto per cinque anni, che diventi impopolare o meno. Due anni prima di venire rieletto nel 1988, François Mitterrand era ai livelli di gradimento di Macron, eppure riconquistò l’Eliseo. La politica è il coraggio della pazienza, non questa agitazione permanente».
Perché l’ha colpita il pacemaker di Netanyahu?
«Sono nel suo ufficio di primo ministro a Gerusalemme, mi dice quel che già sapevo dai giornali, che gli hanno impiantato un pacemaker, e mi chiede se ne ho uno anch’io. Non ne ho bisogno, gli rispondo, ma lui mi dice che tutti dovrebbero avere un pacemaker, per sicurezza, e mi parla del suo modello di punta, apice della tecnologia israeliana. E siccome mi vede scettico, finisce per pronunciare questa frase che trovo terribile: “Lei sbaglia, questo pacemaker è talmente straordinario che il mio cuore continuerà a battere anche nella tomba, dopo che sarò morto”. È un’idea raggelante, e dice molto del personaggio».
Che cosa spera per Israele e Gaza?
«Nell’istante in cui ci parliamo, spero che le spoglie degli ostaggi siano restituite. Le persone non capiscono perché Israele tenga tanto al ritorno dei resti, ma è il principio della civiltà. Antigone si ribella al tiranno Creonte che vuole lasciare Polinice senza sepoltura, abbandonato agli avvoltoi e agli sciacalli, perché sarebbe il trionfo della barbarie. Poi spero che la guerra si fermi davvero, e che i palestinesi possano liberarsi da questa tenaglia della morte esercitata da Hamas. Ho fatto tanti reportage di guerra, ma amo la pace. La guerra senza amarla, diceva André Malraux, e la pace per tutti».