Corriere della Sera, 19 ottobre 2025
Quei viaggi studio nati da un’arrabbiatura. Addio a mamma Erasmus
Tutto è cominciato da un’«arrabbiatura», come la chiamava lei. Roma, fine anni 50. Una studentessa della Sapienza si presenta a uno sportello della sua università per chiedere che le vengano riconosciuti gli esami sostenuti durante il suo anno di studio all’estero. «Columbia University? Mai sentita», scuote la testa l’impiegato dello sportello. «Non è che siccome è andata a spasso per il mondo può pure pretendere che le diamo una laurea». La studentessa mastica amaro, si mette sotto e si laurea comunque presto e bene in Giurisprudenza. Stacco: dieci anni dopo, l’ex borsista Fulbright viene nominata consulente della Conferenza dei rettori italiani e da quella posizione mette a punto un memorandum che propone il riconoscimento dei periodi di studio all’estero: è il primo passo verso quello che solo vent’anni dopo diventerà il progetto Erasmus, il programma di scambi culturali che dal 1987 a oggi ha coinvolto più di 16 milioni di persone.
È mancata l’altra notte a 91 anni, Sofia Corradi, per tutti «mamma Erasmus». Si deve a lei, a questa caparbia signora romana, quell’autostrada di dialogo e di pace che è l’Erasmus: «Quella cosa per cui un giovane catalano va a studiare in Belgio, conosce una ragazza fiamminga, se ne innamora, la sposa e mette su una famiglia europea» (copyright Umberto Eco). È con l’Erasmus che l’Europa ha cominciato a diventare uno spazio senza frontiere, anticipando lo spirito di Maastricht e più tardi quello della moneta unica. Non per niente si è scelto di intitolarlo a Erasmo da Rotterdam, il grande umanista olandese che, per ragioni di studio, girò in lungo e in largo l’Europa.
I viaggi di studio universitari erano la norma fin dal Medioevo. Già da molto prima in realtà, come ci aveva tenuto a puntualizzare Corradi in uno scambio telefonico in occasione del ventennale dell’euro: «Lo stesso Cesare fu mandato a fare un “erasmus” a Rodi per perfezionare la sua conoscenza della lingua e della cultura greca – aveva detto —. Ma nell’Antica Roma, nelle corti medievali e più tardi ai tempi del Gran Tour, a viaggiare erano sempre e solo i figli dei signori. A me premeva che tutti potessero avere quell’opportunità».
Non è ancora così, perché le borse di studio Erasmus non bastano certo a coprire i costi di un semestre all’estero. Ma almeno danno una mano. E non è certo un caso che, fra le prime voci di un possibile riavvicinamento fra Regno Unito e Unione europea, ci sia proprio la ripartenza degli scambi universitari.
Il primo successo di Corradi – ottenuto «a furia di rompere le scatole ai rettori, inizialmente preoccupati di difendere il proprio orticello», come raccontava lei – fu l’adozione di un progetto pilota che incentivava la mobilità studentesca senza chiamarla col suo nome. Finché, il 15 giugno del 1987, l’Erasmus vide finalmente la luce, anche grazie al lavoro svolto all’interno della Commissione europea da un altro italiano, Domenico Lenarduzzi, mancato nel 2019. Ma che la prima spinta propulsiva sia venuta dalla professoressa Corradi (ha insegnato a lungo Educazione degli Adulti a Roma Tre) ormai è un fatto riconosciuto: nel 2016 è stata la seconda donna, dopo Simone Veil, a ottenere il premio europeo Carlo V, un riconoscimento che è stato dato, fra gli altri, a Jacques Delors, Mikhail Gorbaciov, Helmut Kohl, Antonio Tajani, Angela Merkel, Mario Draghi. A giugno di un anno fa la Sorbona le aveva conferito un dottorato honoris causa. A ritirarlo è andata la nipote Margherita, fresca di Erasmus, naturalmente, come pure la sorella Alice. Pochi mesi prima, avvicinandosi il Natale, le due ragazze avevano chiamato la nonna, una da Siviglia e l’altra da Parigi, per dirle che sarebbero rientrate a Roma per le feste. «Non se ne parla proprio – aveva detto lei —: qui trovate i soliti parenti. Godetevi l’Erasmus».