Corriere della Sera, 18 ottobre 2025
Il fantastico uso (e abuso) del superlativo
I superlativi o comunque gli aggettivi «assoluti» con il loro abuso sono il sintomo grammaticale più caratterizzante del nostro tempo, specie quando si tratta di esaltare gli altri per celebrare sé stessi. Il discorso di Netanyahu alla Knesset, secondo Trump, è stato «superbo», il suo è stato un «ottimo lavoro», il trionfo di Israele è stato «incredibile», il leader dell’opposizione in Israele Yair Lapid è un «bravissimo ragazzo», la miliardaria Miriam Adelson è una donna «fantastica». Anche Meloni, nella prefazione al suo libro, è definita dal presidente americano una donna «fantastica». Una «comunicatrice fenomenale», secondo il suo avversario Bersani. «Straordinaria» è per Meloni l’intesa su Gaza ottenuta da Trump. Ma è soprattutto l’aggettivo «fantastico» a dilagare dall’America in Italia: per Vannacci la Toscana è (era prima del voto?) «un posto leggendario e fantastico»; e per Renzi il popolo toscano che ha eletto Giani è un «popolo fantastico», mentre la piazza di Firenze che ha salutato la vittoria è «meravigliosa». D’altra parte, il risultato di Fratelli d’Italia secondo Donzelli è stato «eccezionale» sia pure nella sconfitta… Certo, le vittorie favoriscono un’aggettivazione se possibile ancora più superlativa: «straordinario» fu per Schlein il trionfo di Genova, dopo una campagna elettorale «bellissima». E si potrebbe continuare, aggiungendo i superlativi di segno opposto: sempre Trump ha definito la copertina del «Time», che ne ritrae la pappagorgia, «orribile, la peggiore mai vista» (superlativo relativo). «Incredibile» è l’aggettivo preferito da Sinner quando parla dei suoi avversari (dopo la partita di giovedì, ha detto che Djokovic «sta facendo cose incredibili», incredible in inglese). Quando non è «fantastico», il passante in corsa di Alcaraz è «incredibile» per i cronisti, così come è «incredibile» la sua striscia di vittorie, così come la rivalità tra lo spagnolo e l’italiano. Siamo la cultura dell’iperbole enfatica, diceva il grande semiologo Paolo Fabbri: abuso del superlativo e insofferenza per il comparativo. Non è il tempo del confronto.