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 2025  ottobre 17 Venerdì calendario

Starmer e l’ardito accostamento all’Ira. Ma il disarmo non si crea con un motto

Quando, nell’estate del 2005, gli indipendentisti irlandesi dell’Ira annunciarono la fine della lotta armata accettando di mettere fuori uso il proprio arsenale, il primo ministro britannico Keir Starmer non sedeva in Parlamento né partecipava al dibattito politico. Era un avvocato di fama, ma distante dai tavoli dove si costruivano con pazienza le architetture della pace in Irlanda del Nord.
Oggi, il laburista in caduta libera di consensi nei sondaggi, evoca proprio quel modello come possibile cornice per affrontare il nodo più incandescente del Medio Oriente: Hamas e la crisi di Gaza. L’idea è che si possa replicare quanto avvenuto tra Londra e i repubblicani irlandesi, spingendo Hamas al disarmo come tappa iniziale di un percorso politico. Ma è un paragone del tutto infondato che suona come uno slogan fuori contesto. Il disarmo dell’Ira fu l’atto finale di un processo di pace iniziato almeno dieci anni prima, con i primi contatti riservati tra rappresentanti britannici e repubblicani irlandesi. L’Accordo del Venerdì Santo, firmato nel 1998, aveva già segnato un cambiamento irreversibile nel conflitto angloirlandese: prevedeva un nuovo assetto istituzionale, la condivisione del potere tra unionisti e nazionalisti, riforme di polizia e giustizia, e soprattutto un riconoscimento reciproco tra le parti in conflitto. Al centro di questo processo c’era la volontà politica di dare forma a una pace condivisa con due governi, quello britannico e quello irlandese, impegnati attivamente nel sostenere il dialogo, e una leadership repubblicana che – attraverso lo Sinn Féin – aveva acquisito una credibilità politica crescente. Gerry Adams, figura centrale del repubblicanesimo irlandese, era diventato un interlocutore riconosciuto anche dai suoi oppositori. La sua capacità di parlare sia alla base militante che ai governi ne fece un protagonista legittimo del dialogo. Nulla di tutto questo esiste oggi nel contesto di Gaza. Non c’è un processo politico avviato, non esiste una leadership palestinese unificata e riconosciuta, non ci sono osservatori terzi con la fiducia di entrambi gli attori, e soprattutto non c’è un clima di fiducia che possa sostenere un gesto come il disarmo.
La Striscia di Gaza è sotto assedio, devastata e sottoposta a una crisi umanitaria senza precedenti. Hamas è politicamente isolato e, a differenza dell’Ira, non ha interlocutori politici legittimati nel contesto internazionale.
Non esiste un Gerry Adams palestinese con cui si possa discutere pubblicamente del futuro del proprio popolo. A Gaza non c’è uno Stato, né una cornice legale riconosciuta, né la possibilità per la popolazione di partecipare liberamente alla vita politica. In queste condizioni, il disarmo equivale a una resa.
Rispetto a vent’anni fa, inoltre, il contesto geopolitico appare oggi frammentato e diviso. Gli attori regionali hanno interessi divergenti: Egitto, Qatar, Turchia e Iran agiscono secondo proprie logiche, e non esiste un fronte diplomatico coeso capace di offrire garanzie affidabili. Gli Stati Uniti restano schierati con Israele, e l’Europa non ha una posizione autonoma, né strumenti reali di influenza. In questo quadro, la proposta di Starmer appare più come una suggestione politica che come una strategia fondata. In Irlanda del Nord, il disarmo fu l’esito di un percorso complesso, paziente e condiviso. A Gaza, si vorrebbe iniziare da lì, saltando tutte le fasi preliminari: ma la pace, purtroppo, non si costruisce per analogie.